Si era anche discusso di sostituire, se non altro, quella vecchia gabbia aperta con un ascensore più moderno e comodo, ma questo avrebbe significato un utilizzo solo per il varco. Di fatto, però, la miniera di Creighton era in piena attività per lo scavo del nichel e, pur con tutto lo spirito di collaborazione, la Inco aveva centinaia di minatori da spostare ogni giorno su e giù per quel pozzo.
A differenza della volta scorsa in cui Mary e Ponter avevano avuto tutto lo spazio per sé, adesso condividevano il tragitto con sei minatori diretti al sottosuolo. Alcuni, in assenza di targhette, come sugli ascensori dei palazzi, osservavano educatamente il pavimento sporco di terriccio; gli altri fissavano Ponter apertamente.
Una serie di segnali, dipinti sulle pareti del pozzo, indicavano il piano. L’ascensore, sferragliando lungo il condotto irregolare, arrivò a quota 1.400 metri. A quel livello, dove ormai era stato estratto tutto il metallo, era stato creato un giardino botanico in cui crescevano alberi destinati a progetti di rimboschimento nei dintorni di Sudbury.
Quindi l’ascensore si fermò con un sussulto al piano dei minatori; la porta si aprì cigolando, e loro scesero. Mary li osservò mentre uscivano; erano uomini che, fino a poco tempo fa, avrebbe trovato robusti, ma adesso, accanto a Ponter, facevano una magra figura.
Ponter azionò la campanella per segnalare all’operatore di superficie che i minatori erano scesi. La cabina si riavviò pesantemente. Il rumore rendeva quasi impossibile la conversazione; la volta scorsa, per delicato che fosse l’argomento, Mary e Ponter dovevano sgolarsi.
Finalmente, raggiunsero il primo livello. Qui la temperatura era soffocante sempre intorno ai 41 °C, con una pressione del 30 per cento superiore a quella di superficie.
Se non altro, qui il sistema di trasporto era stato migliorato. Invece di farsi a piedi i 1.200 metri in orizzontale che mancavano per raggiungere l’impianto dei neutrini, i due trovarono ad attenderli un veicolo piuttosto chic: una sorta di dune buggy con il logo dell’Osservatorio sul cofano. Ce n’erano altri due parcheggiati nei dintorni; il resto della flotta era dislocato altrove.
Ponter indicò a Mary di salire al posto del conducente. Mary trattenne un sorriso; il grande uomo sapeva lare un sacco di cose, ma non guidare. Entrato anche lui in macchina, Mary si prese un minuto per familiarizzare con i comandi, leggendo i vari avvisi e istruzioni indicati sul cruscotto. Non sembrava più complicato da guidare di una vettura di quelle che fanno servizio sui campi da golf. Avviò con la chiavetta, attaccata al veicolo da una catenella, e si infilò nel tunnel; evitando le rotaie dei carrelli. Per arrivare a piedi all’Osservatorio occorrevano una ventina di minuti, ma su ruote ne bastarono quattro.
Paradossalmente, adesso che l’impianto serviva da anticamera per i viaggi inter-mondi, non era più tenuto in condizioni asettiche. Sarebbe stato obbligatorio buttarsi sotto le docce ma, per quanto fossero lì a disposizione per chi volesse togliersi di dosso la sporcizia del viaggio, Ponter e Mary le oltrepassarono senza fermarsi. Si aprì automaticamente la porta che conduceva alla camera sotto vuoto che a suo tempo serviva da aspirapolvere sui visitatori. Ponter si strinse per attraversarla, seguito da Mary.
Passando oltre il dedalo di tubature che in passato avvolgevano la sfera di acqua pesante, raggiunsero la sala di controllo. Lì c’erano in pianta stabile due militari canadesi a montare la guardia.
— Buongiorno, inviato Boddit — disse una delle guardie, alzandosi per venirlo a salutare.
— Buongiorno — rispose Ponter, direttamente in inglese. Ormai padroneggiava circa 200 parole, che poteva utilizzare (ammesso che riuscisse a pronunciarle) senza l’aiuto di Hak.
— Lei è la professoressa Vaughan, vero? — chiese il soldato. Il suo rango era sicuramente indicato dalle mostrine, ma Mary non era in grado di decifrarle.
Perciò rispose semplicemente: — Sì, esatto.
— L’ho vista in TV — proseguì il militare. — Per lei è la prima volta, signora, vero?
Mary annuì.
— Be’, immagino che l’abbiano già informata sulla procedura. Devo verificare il suo passaporto, poi le preleverò un campione di DNA.
Per fortuna, Mary aveva con sé il documento. Se l’era procurato per andare in Germania a estrarre il DNA del neanderthal conservato al Rheinisches Landesmuseum, e in seguito lo aveva rinnovato (perché il passaporto canadese dura solo 5 anni, anziché 10 come quello USA?). Lo ripescò dalla borsetta e lo mostrò alla guardia. Ironia della sorte, nella foto Mary sembrava più vecchia che dal vivo: l’immagine risaliva a quando ancora non si era tinta i capelli.
Quindi Mary aprì la bocca per permettere al militare di farle passare un tampone sulla parte interna della guancia destra. Lui eseguì l’operazione in modo piuttosto rozzo; per prelevare materiale genetico non c’era bisogno di sfregare.
— La ringrazio, signora — disse alla fine. — Le auguro buon viaggio.
Mary lasciò che Ponter facesse strada sul tetto metallico al di sopra della caverna cilindrica, alta una trentina di metri, che aveva ospitato l’Osservatorio. Invece di doversi calare da una botola, come la volta scorsa, adesso tra le lastre metalliche era stata tagliata un’ampia apertura, in cui era stato installato un ascensore. Ponter disse che era una novità anche per lui. La cabina aveva pareti trasparenti in materiale acrilico; era stata realizzata dalla stessa impresa che aveva costruito la sfera dell’acqua pesante, ormai smantellata.
L’ascensore era solo una delle modifiche progettate per l’area. Se il varco fosse rimasto aperto per gli anni a venire, la caverna sarebbe stata riempita con una struttura a 10 piani, comprendente dogana, infermeria e perfino qualche stanza in stile hotel. Attualmente, comunque, l’ascensore faceva solo due fermate: il pianterreno roccioso e, tre livelli più sopra, il palco eretto intorno al varco. Quest’ultimo, in cui adesso si trovavano Mary e Ponter, era costituito da una vasta piattaforma in legno, presidiata da altri due militari. Su un lato campeggiavano le bandiere dell’ONU e delle tre nazioni che avevano dato vita all’Osservatorio: Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna.
Ed eccolo, proprio di fronte a lei, il…
Il nome che ormai aveva assunto a livello popolare era “il varco” ma, a causa del tubo Derkers, ricordava piuttosto un tunnel. A Mary il cuore batteva all’impazzata: già di lì poteva vedere fino all’altra estremità… fino al mondo dei neanderthal, e…
“Mio Dio” pensò Mary.
Davanti all’altra estremità era passato una specie di Maciste; qualcuno che stava lavorando nei pressi del tunnel.
Un altro neanderthal.
Mary aveva visto spesso Ponter, e occasionalmente Tukana, ma ancora faceva fatica a credere, fino in fondo, che ne esistessero altri milioni. E…
Ed eccone un altro, là in fondo al tubo Derkers.
Mary inspirò profondamente. Visto che Ponter le stava cortesemente indicando di passare per prima, la cittadina di questa Terra prese a camminare lungo il ponte cilindrico che portava all’altra parte.
Sul fondo del tubo era stata inserita una passerella piana, che rendeva più facile il percorso. Intorno, grazie alle pareti bianche e trasparenti, Mary poté scorgere l’anello bluastro di luce. Il vero varco, l’apertura tra i due mondi, il punto di discontinuità.
Arrivata al margine della discontinuità, si fermò. Certo, Ponter lo aveva già percorso in entrambe le direzioni, e anche un certo numero di sapiens aveva già compiuto il tragitto. Ma Mary cominciò a sudare, e non solo per il caldo del sottosuolo.
Ponter le posò una mano su una spalla. Per un orribile secondo, lei pensò che intendesse scaraventarla avanti.
Ovviamente, non lo fece. — Prendi il tempo che ti serve — le sussurrò in un inglese elementare. — Quando sei pronta, vai.