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Mary annuì. Trattenne il fiato e fece un passo avanti.

Mentre attraversava la soglia tra i due universi, fu come se una schiera di formiche zampettasse su di lei dal petto alla schiena. Era partita a passi incerti, ma ora compì un breve salto per interrompere al più preso quella sgradevole sensazione.

Ce l’aveva fatta. Adesso era a pochi centimetri, e decine di migliaia di anni, dal mondo che conosceva.

Proseguì in direzione dell’uscita, seguita dai pesanti passi di Ponter. Infine mise un piede all’esterno, in quella che sapeva essere la stanza del computer quantistico. A differenza dell’Osservatorio di Sudbury, che aveva cambiato funzione, qui tutto era ancora operativo. Anzi, da quanto Mary aveva capito, se il computer avesse smesso di funzionare, addio varco.

Di fronte a lei c’erano quattro neanderthal, tutti maschi. Uno indossava un’abbagliante tuta argentea; gli altri erano in camicia, senza maniche, con quegli strani pantaloni muniti di babbucce. Tutti portavano, come Ponter, i capelli chiari scriminati esattamente a metà; tutti esibivano muscoli erculei sulle membra tozze; tutti avevano arcate sopracciliari ondulate; tutti possedevano massicci nasi a patata.

Dalle sue spalle provenì la voce di Ponter, che disse qualcosa nella propria lingua. Mary si voltò con un’espressione sorpresa. Lo aveva sempre sentito parlare quella lingua sottovoce, con Hak che traduceva a volume maggiore attraverso l’altoparlante, ma finora non lo aveva mai sentito declamare in modo così stentoreo. Qualunque cosa avesse detto, doveva essere una battuta, perché i quattro neanderthal reagirono con risate profonde e gutturali.

Mary si mise da parte per fare largo a Ponter. E fu allora che…

Ponter aveva parlato spesso di Adikor, e Mary sapeva bene, in teoria, che Ponter aveva un amante, ma…

Ma, per quanto lei fosse di idee progressiste, nonostante si fosse preparata mentalmente, e a dispetto di tutti i gay che frequentava sulla sua Terra, si sentì stringere lo stomaco quando Ponter abbracciò l’uomo che doveva essere Adikor. Si strinsero a lungo e con forza; Ponter premette il viso ampio contro la guancia pelosa del compagno.

A Mary non ci volle molto per dare un nome al proprio sentimento. Dio mio, erano decenni che non provava nulla del genere, e se ne vergognava. Non la disgustava quella manifestazione di affetto omosessuale. Per niente. Figuriamoci, bastava fare un po’ di zapping sulle TV locali canadesi il venerdì notte per imbattersi in qualche film porno-gay. No, quella era…

Era una cosa riprovevole, di cui sapeva che avrebbe dovuto sbarazzarsi in fretta/se voleva instaurare con Ponter una relazione a lungo termine.

Era gelosa.

Ponter lasciò andare Adikor, quindi sollevò il braccio sinistro. Adikor eseguì lo stesso gesto, e Mary notò simboli simmetrici sui display dei rispettivi Companion. Probabilmente Ponter stava ricevendo da Adikor i messaggi accumulati per lui in quel periodo.

Poi riabbassarono le braccia all’unisono, ma Ponter solo a metà, e con la mano indicò Mary. — Prisap toh Mèr Vonnnn daballita sohl — disse; siccome però non si stava rivolgendo a lei, Hak non tradusse.

Adikor fece un passo avanti, sorridendo. Aveva una faccia simpatica, ancora più larga di quella di Ponter, addirittura larga come un piatto di portata. I suoi occhi rotondi, incassati nelle orbite, erano di un incredibile verde cangiante. L’effetto generale era di un omino Michelin in versione Flintstones.

La voce di Ponter si abbassò a un mormorio, e Hak tradusse a volume normale: — Mèr, ti presento il mio compagno, lo scienziato Adikor Huld.

— Salva! — disse Adikor. Mary restò attonita per un secondo, poi capì che intendeva dire “salve” ma aveva sbagliato vocale. Però la commosse il fatto che si stesse sforzando di parlare la sua lingua.

— Salve — rispose. — Ho sentito parlare spesso di te.

Adikor incassò lievemente la testa, intento ad ascoltare il Companion attraverso l’impianto cocleare. Poi, in modo sorprendentemente naturale, sorrise e disse nel suo inglese dal forte accento straniero: — Solo bene, spero! Mary non poté fare a meno di ridere. — Oh, sì.

— E questo — aggiunse Hak — è un Esibizionista.

Mary fu presa in contropiede. Ponter stava indicando il neanderthal vestito d’argento. Mary non avrebbe saputo che fare, se quello strano tipo le avesse teso la mano. — Hmm… lieta di conoscerla — disse.

L’Esibizionista non aveva l’accortezza di abbassare il tono della propria voce, per cui ci voleva parecchio sforzo per distinguere la traduzione del Companion dal baccano che faceva lui. — Ho saputo che nel suo mondo corrisponderei a un reporter, Il mio mestiere è andare nei posti in cui succede qualcosa, e permettere al pubblico di sintonizzarsi sulle trasmissioni del mio Companion.

— Tutti gli Esibizionisti vestono a quel modo — spiegò Ponter — e nessun altro. Perciò, se vedi in giro gente coperta d’argento, ricorda che migliaia di persone ti stanno osservando.

— Ah! — Mary fece mente locale. — Gli Esibizionisti! Sì, ricordo che me ne hai parlato.

Quindi Ponter le presentò gli altri due. Uno era l’equivalente di un poliziotto; l’altro un corpulento esperto di robotica, di nome Dern.

La femminista che c’era in Mary trovò oltraggioso che nella struttura non ci fossero donne. Poi però le venne in mente che nei paraggi donne proprio non ce n’erano: la miniera era situata all’esterno dell’Anello della città di Saldak.

Ponter accompagnò Mary attraverso la serie di cilindri fissati al suolo, poi su per una scala e infine, varcata la soglia, nella sala di controllo. Mary si senti congelare: i neanderthal non amavano il caldo, ma qui la temperatura naturale sarebbe stata la stessa che dall’altro lato del varco, per cui dovevano aver costruito un impianto di aria condizionata. Abbassando lo sguardo, Mary notò con imbarazzo che le si intravedevano i capezzoli sotto la stoffa bagnata di sudore. — Come mantenete bassa la temperatura, qui sotto? — chiese.

— Pompe a superconduttività — rispose Ponter. — Per la nostra scienza, ormai sono un fatto normale.

Mary osservò la sala di controllo. La colpì la stranezza delle consolle. Non le era mai venuto in mente che i designer industriali avessero deciso in modo arbitrario l’aspetto che dovesse avere la strumentazione; che il design high-tech fosse solo uno dei possibili stili. Qui, al posto del grigio, del nero e dei colori metallizzati delle apparecchiature gliksin, era un trionfo di rosa corallo, senza spigoli, con pochi gingilli che andavano estratti, anziché premuti. Niente cifre digitali, niente quadranti, niente interruttori a bascula. Viceversa la strumentazione sembrava riflettente, anziché luminosa, e i dati comparivano in simboli blu di Prussia su sfondo avorio. Sembravano targhette prestampate, ma le stringhe di caratteri si modificavano di continuo.

Ponter fece cenno a Mary di affrettarsi. Raggiunsero l’impianto di decontaminazione. Prima ancora che lei si rendesse conto di cosa stava succedendo, Ponter si era sbottonato le maniche della camicia e le aveva tirate via. Subito dopo, si sfilò i pantaloni. Ammassò i vestiti in una cesta cilindrica ed entrò nella camera circolare. Ponter restò immobile; il pavimento cominciò a ruotare lentamente, mostrando a Mary prima la sua schiena larga come un armadio, e ciò che c’era al di sotto, poi il suo torace largo come un armadio, e ciò che c’era al di sotto. Da una parte c’erano cannelli laser e dalla parte opposta puntini luminosi; i raggi attraversavano il corpo di Ponter come fosse d’aria; ma, come Mary sapeva, nel tragitto folgoravano tutte le bio-molecole estranee.

Il processo richiese varie rotazioni. Ponter era come in letargo. Mary si sforzava di non abbassare gli occhi. L’ultima volta che lo aveva visto nudo, era in penombra. Ma adesso lui era sotto un’illuminazione da film hard. Il corpo era in gran parte coperto di sottile peluria bionda; gli addominali erano sodi; il petto così pieno da ricordare un seno femminile; e…