Distolse lo sguardo.
Alla fine, Ponter terminò la procedura. Uscì dalla camera e le fece segno che toccava a lei.
Mary si sentiva il cuore in gola. Le era stato spiegato già prima come funzionava la decontaminazione, ma non aveva pensato che Ponter rimanesse lì a guardare. Certo, poteva informarlo che la cosa la metteva a disagio. Ma…
Mary sospirò. Paese che vai…
Si sbottonò la camicetta, che buttò nella stessa cesta usata da Ponter. Si tolse le scarpe e, ricevuto l’okay da lui, infilò anche quelle nel contenitore. Quindi si sfilò i pantaloni, e…
Eccola là, in reggiseno crema e mutandine bianche. Se i laser erano in grado di eliminare batteri e virus passando attraverso la pelle, avrebbero dovuto riuscirci anche attraverso la biancheria intima. Solo che la biancheria, così come tutti i vestiti, la borsetta, la valigia, andavano ripuliti per via acustica, esponendoli a ultravioletti ad alta intensità. I laser infatti erano perfetti per fulminare i microbi, ma non erano abbastanza potenti per eliminate gli acari e le zecche annidati nelle pieghe. Ponter le disse che sarebbe stato loro restituito ogni effetto personale dopo la ripulitura completa.
Mary slacciò il reggiseno. Le tornarono in mente i tempi dell’università, quando riusciva a superare la “prova della matita”; ma quei tempi erano passati. Le mammelle si abbassarono, e lei d’istinto le coprì incrociando le mani, poi si ricordò che doveva ancora togliere le mutandine. Non sapeva bene se fosse più signorile eseguire l’operazione dando le spalle o il viso: in entrambi i modi, avrebbe esposto curve poco competitive. Infine optò per girarsi di schiena e se le abbassò con uno scatto, per poi tornare in posizione eretta il più velocemente possibile.
Ponter continuava a osservarla con un sorriso d’incoraggiamento. Se la luce impietosa di quel luogo aveva reso Mary meno attraente ai suoi occhi rispetto alla penombra dell’hotel, non lo diede a vedere.
Messe anche le mutande nella cesta, entrò nella stanza, ed ebbe inizio quell’umiliante rotazione. Certo, anche lei aveva sbirciato quand’era stato il turno di Ponter, ma lui era muscoloso e piuttosto ben fatto, e lei l’aveva ammirato. Lei invece era una quarantenne in conflitto con l’età, con dieci chili di troppo, e con peli pubici che tradivano la colorazione artificiale dei capelli. Com’era possibile che Ponter trovasse qualcosa di bello in quella massa pallida e molliccia?
Mary chiuse gli occhi e attese che la procedura terminasse. Non avvertì nessuna particolare sensazione: qualunque cosa i laser le stessero facendo alle budella, era completamente indolore.
Poi, grazie al cielo, finì. Passò sul lato opposto della camera, da dove Ponter la accompagnò in un altro ambiente per rivestirsi. Le indicò una parete con nicchie piene di abiti. — Prova quelli in alto a destra — disse Ponter. — Le misure sono in ordine crescente verso il basso, e là dovrebbero esserci quelli più piccoli.
“Quelli più piccoli” pensò Mary, il che la rallegrò un po’. Pareva che in quel mondo avrebbe fatto la figura della mingherlina.
Si rivestì in gran fretta e Ponter la condusse agli ascensori. Ancora una volta, Mary si sentì presa alla sprovvista dalle enormi differenze tra tecnologia gliksin e barast. La cabina dell’ascensore era circolare, e si azionava premendo dei pedali collocati sul pavimento. Appena Ponter li fece abbassare sotto il suo peso, la cabina partì. Comodissimo, in caso di mani cariche di spesa! Una volta a Mary si erano rovesciate a terra frutta e verdura, uova incluse, mentre tentava di premere il pulsante sull’ascensore del suo condominio.
A distanza regolare, all’interno erano fissati quattro pali. All’inizio Mary pensò servissero per tenersi, ma si sbagliava. Poco dopo che era iniziato il lungo tragitto verso la superficie, che presumibilmente anche lì distava un paio di chilometri, Ponter si mise a sfregarsi la schiena contro uno dei pali. Servivano per grattarsi ed erano anche un buon modo per passare il tempo.
Ad alta voce, però, Mary chiese se fosse una buona idea costruire ascensori circolari. Non avrebbero avuto la tendenza a ruotare su se stessi?
Ponter annuì con la testa massiccia. — È quella l’idea — tradusse Hak. — Il meccanismo di sollevamento è impiantato lungo le pareti del pozzo, non al di sopra come da voi. Le scanalature che guidano il movimento non sono perfettamente verticali, anzi si incurvano dolcemente a spirale. In questo pozzo, per esempio, l’ascensore a inizio corsa è rivolto verso est, ma in cima guarderà a ovest.
Proseguendo il percorso, Mary s’incuriosì sul sistema di illuminazione. — Oh Gesù — disse — ma è luciferina? — Sull’orlo superiore della cabina correva una tubatura in vetro riempita di un liquido che emetteva una luminosità blu-verde.
Hak fece bip.
— Luciferina — ripeté Mary. — La sostanza utilizzata dalle lucciole per far risplendere il proprio addome.
— Ah — disse Ponter. — Sì, si tratta di una reazione catalitica dello stesso tipo. È la sorgente principale della nostra illuminazione d’interni.
Mary approvò tra sé. Era ovvio che i neanderthal, insofferenti com’erano alle alte temperature, non avrebbero mai usato bulbi a incandescenza. La luciferasi era invece una reazione chimica di perfetta efficienza, che produceva luce quasi senza emettere calore.
L’ascensore procedeva verso la superficie. La luce blu-verde dava alla pelle di Ponter una buffa tonalità argentea; le sue iridi risultavano quasi di un giallo limone. Aperture di ventilazione nel pavimento e nel soffitto creavano una lieve brezza; Mary si strinse nelle braccia per ripararsi dalla corrente.
— Mi spiace — disse Ponter, notandolo.
— Nessun problema — disse Mary. — So che preferite un clima fresco.
— Non è per quello — spiegò Ponter. — In uno spazio chiuso i feromoni si concentrano, e il viaggio qui è lungo. La ventilazione assicura che i passeggeri non subiscano in modo troppo pesante gli odori altrui.
Mary scosse la testa, sbalordita. Non era ancora uscita dalla miniera, e già era sopraffatta dallo shock culturale. Eppure sapeva bene che stava per visitare un altro mondo! In lei crebbe l’ammirazione per Ponter, che la prima volta era stato catapultato in un universo parallelo senza preavviso, ed era riuscito a conservare la lucidità mentale.
Finalmente l’ascensore raggiunse il piano di arrivo, e la porta si aprì. Perfino quello avvenne in modo alieno: la porta, pur senza giunture, si ritrasse a fisarmonica.
Si ritrovarono in una stanza quadrata di circa 5 metri per lato. Pareti color verde limetta, soffitto basso. Ponter andò a uno scaffale da cui prese una scatola che sembrava fatta di cartone blu. La aprì e ne estrasse un oggetto scintillante, parte metallico, parte in plastica.
— Il Gran Consiglio dei Grigi — disse Ponter — si è reso conto di non avere scelta, deve consentire l’ingresso di visitatori dal tuo mondo. Ma Adikor mi ha detto che hanno imposto una condizione: devi metterti addosso questo. — Glielo porse. Era una strisciolina metallica con un display simile a quello di Hak.
— Di solito i Companion vengono impiantati a livello fisico — proseguì Ponter. — Tuttavia sarebbe troppo, pretendere che ogni visitatore si sottoponesse a un’operazione chirurgica. Questa striscia può essere rimossa solo all’interno di questa struttura: cioè, il suo computer interno è in grado di individuare la propria posizione, e permetterà alla cerniera di riaprirsi solo qui dentro.
Mary annuì. — Capisco. — Allungò il braccio destro.
— Il Companion va di regola sul braccio sinistro — disse Ponter — a meno che uno non sia mancino.