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Mary porse il braccio sinistro. Ponter si mise ad armeggiare per fissarle il Companion. — A proposito. Una cosa che volevo chiederti da tempo — disse Mary. — I neanderthal sono perlopiù destrorsi?

— Sì, circa il 90 per cento di noi.

— Era ciò che immaginavamo, in base ai reperti fossili.

Ponter fece una faccia incredula. — Come si fa a stabilire un fatto del genere con i fossili? Mi pare che noi non possediamo nessun dato sulla manualità dominante dei gliksin che anticamente vivevano qui.

Mary sorrise, fiera della genialità della propria stirpe. — È stato grazie ai denti.

— Che c’entrano i denti?

— È stato compiuto uno studio su 80 denti appartenuti a 20 neanderthal. Il fatto è che, date le mascelle che vi ritrovate, immaginavamo che utilizzaste i denti come morse per tenere ferma la pelle della preda mentre ne staccavate la carne. Ora, la pelle è abrasiva, e lascia delle tacche sulla parte anteriore dei denti. In 18 degli esemplari esaminati le tacche erano inclinate verso destra, esattamente ciò che sarebbe successo tirando la pelle con la mano destra.

Ponter allora assunse quella che, come Mary sapeva, era per i neanderthal un’espressione impressionata: si risucchiò il labbro inferiore tra i denti e corrugò la fronte al centro, sopra il naso. — Ottima deduzione — disse. — Ancora oggi si tengono feste in cui le carni vengono spellate in quel modo, anche se ovviamente esistono tecniche meccanizzate allo scopo; ma quelle feste hanno il valore di riti di gruppo.

Fece una breve pausa, poi aggiunse: — E parlando di pelli… — Andò dalla parte opposta della stanza, dove si allineavano delle pellicce appese, a quanto pareva, a morsetti collegati a una sbarra orizzontale. — Scegline pure una di tuo gradimento — disse Ponter. — Anche qui, le più piccole sono quelle sulla destra.

Mary ne indicò una. Ponter, con un gesto che lei non riuscì a identificare, staccò uno dei cappotti dai morsetti. Né Mary sapeva bene come indossarlo: sembrava che andasse infilato lateralmente. Ponter la aiutò. Una parte di lei avrebbe voluto rifiutarsi, essendo un’animalista contraria alle pellicce; qui però la società era diversa.

Certo, non era una pelliccia di lusso, né di visone né di zibellino; era ruvida, di un colore rossiccio irregolare. — Di che animale è? — chiese, mentre Ponter la chiudeva nella pelliccia.

— Mammut.

Mary spalancò gli occhi. Magari non era soffice come quella di visone, ma sulla sua Terra avrebbe avuto un valore infinitamente superiore.

Ponter non si preoccupò di coprirsi, e si diresse alla porta. Questa era di tipo normale, fissata a un’asta verticale intorno a cui ruotava come su cardini. Ponter aprì, e…

Ed eccoli in superficie.

All’improvviso, tutta la stranezza della situazione svanì.

Quella era la Terra. La Terra che lei conosceva. Il sole, che declinava verso l’orizzonte, era identico a quello che aveva sempre visto. Il cielo era azzurro. Gli alberi erano pini, betulle e altre specie note.

— Fa freddo — disse Mary. Sembravano esserci 4 gradi in meno che nella zona corrispondente di Sudbury.

Ponter sorrise. — Meglio così.

Un rumore improvviso monopolizzò l’attenzione di Mary. Un mammut che correva a vendicare un suo parente? Ma no, era un veicolo a cuscinetto d’aria, di forma cubica e con angoli arrotondati. Si avvicinava volando basso al di sopra del terreno roccioso. Il rumore che Mary aveva sentito derivava dalle eliche che tenevano il veicolo sospeso, e da quella principale situata nella parte posteriore, come quelle delle barche che si usano nelle Everglades.

— Il cubo volante che avevo richiesto — disse Ponter. Mary immaginò che lo avesse fatto tramite Hak, senza traduzioni esterne. Lo strano veicolo atterrò di fronte a loro. Il conducente era un imponente neanderthal, di una ventina d’anni più vecchio di Ponter.

La parete trasparente del cubo si aprì; il conducente disse qualcosa a Ponter. Ancora una volta la conversazione non venne tradotta a beneficio di Mary, ma lei suppose che fosse del tipo: “Dove andiamo, capo?”.

Ponter fece cenno a Mary di precederlo all’interno. — E ora — le disse — permettimi di mostrarti il mio mondo.

30

— Questa è casa tua? — chiese Mary.

Ponter annuì. Avevano dedicato un paio d’ore a visitare alcuni edifici pubblici, ma adesso si stava facendo buio.

Con grande sorpresa di Mary, la casa non era di mattoni né di pietra. In gran parte, era realizzata in legno; non che ne mancassero nella sua Terra, per quanto ormai fossero vietate per legge in molte zone dell’Ontario, ma mai ne aveva vista una come questa. Non sembrava edificata, ma cresciuta. Come se un tronco molto spesso e basso si fosse sviluppato fino a occupare tutti gli spazi di uno stampo con forme cubiche e cilindriche, stampo che poi fosse stato rimosso lasciando al suo posto la pianta. Dopodiché il suo interno era stato parzialmente scavato, ma senza ucciderla. La superficie della casa era ancora rivestita di corteccia scura e l’albero sembrava in salute, anche se le foglie, sui rami che si protendevano dal corpo centrale, si erano ingiallite con l’arrivo dell’autunno.

Il che non toglieva che si notassero anche lavori di falegnameria. Le finestre erano perfettamente squadrate, come tagliate nel tronco. In un angolo, all’esterno, c’era un tavolo realizzato con assi.

— È… — Nella mente di Mary vari aggettivi lottarono per imporsi: strano, meraviglioso, particolare, affascinante… Alla fine vinse: — Bellissimo.

Ponter annuì. Nel mondo di Mary si sarebbe risposto “grazie” al complimento, ma lei aveva imparato che i neanderthal non ringraziavano per cose di cui non avessero il merito. Già in precedenza, Mary aveva commentato che una delle camicie di Ponter era bella, e lui l’aveva guardata con aria perplessa, essendo ovvio che nessuno mette mai addosso qualcosa di brutto.

Mary indicò un grande quadrato nero sul terreno adiacente; era sui 20 metri per 20. — Cos’è, un’area di atterraggio?

— Solo occasionalmente. In realtà è un collettore di energia solare: trasforma la luce del sole in elettricità.

Mary sorrise. — Suppongo che d’inverni tocchi spalarlo.

Ponter scosse la testa. — Oh, no. L’hover-bus che ci porta ai posti di lavoro atterra proprio lì, e così facendo sfrutta i jet per spazzare via la neve.

Mary odiava talmente spalare la neve che, dopo la separazione da Colm, aveva optato per un appartamento. Immaginava la reazione del Comune, se si fosse chiesto di mandare uno spazzaneve davanti a ogni casa.

— Vieni, entriamo — la invitò Ponter.

La porta si aprì automaticamente. Le pareti interne erano in legno lucido; era la sostanza stessa dell’albero che li avvolgeva. Mary aveva visto un sacco di case rifinite in legno prima di allora, ma mai con venature che si estendevano ininterrottamente per un’intera stanza. Se non avesse visto l’edificio dall’esterno, non avrebbe mai capito come l’effetto fosse stato ottenuto. In vari punti delle pareti erano state ricavate delle nicchie, che contenevano sculture e cianfrusaglie varie.

All’inizio, le parve che il pavimento fosse coperto da una folta moquette, ma presto si accorse che era muschio. Quello doveva essere il soggiorno, con un paio di sedie dalla foggia inconsueta e due divani che si protendevano dal muro. Niente quadri incorniciati, però sull’intero soffitto era stato dipinto un grande murale, e..

A Mary si gelò il sangue.

In casa c’era un lupo.

Mary impallidì. Il cuore le martellava.

Il lupo si preparò a balzare su Ponter.

— Attento! — urlò lei.

Ponter si voltò, e andò a cadere di schiena su uno dei divani. Il lupo era su di lui, con le fauci spalancate; e Ponter…