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— Non temete che il tizio che ha usato il veicolo prima di voi lo possa aver lasciato… be’, in disordine?

L’autista azionò alcune leve di comando, in modo che il cubo evitasse un gruppetto di alberi. Poi, senza dire nulla, sollevò il braccio sinistro, come se quel gesto spiegasse tutto.

E lo spiegava, in effetti. Nessuno si sarebbe sognato di lasciare sporcizia in giro, o di danneggiare un mezzo pubblico, sapendo che una registrazione visiva completa di ogni suo atto veniva trasmessa in tempo reale all’archivio degli alibi. Nessuno poteva impunemente rubare un veicolo, né usarlo per commettere un reato. Senza contare che i Companion dovevano conservare memoria di tutti gli oggetti che si portavano con sé: doveva essere difficile perfino dimenticarsi il cappello, sul sedile.

Ormai era buio pesto. Con sua grande sorpresa, però, Mary si accorse che non si trovava più in aperta campagna, bensì in pieno Centro di Saldak. Mancavano quasi del tutto le luci artificiali; infatti l’autista non si orientava osservando le strade attraverso la superficie trasparente del mezzo, ma consultando un monitor quadrato agli infrarossi, inserito nel cruscotto.

Il cubo atterrò e uno dei lati si aprì, lasciando entrare l’aria fredda della notte. — Eccola a destinazione — disse l’autista. — La casa è quella là. — Indicò un edificio di forma strana, appena visibile a una decina di metri di distanza.

Mary la ringraziò, e scese. Aveva in mente di raggiungere la casa a testa bassa, trovando piuttosto inquietante l’idea di stare all’aperto di notte su quel pianeta sconosciuto. Invece si bloccò sul posto e sollevò gli occhi.

Le stelle erano qualcosa di spettacolare, con la Via Lattea perfettamente visibile. Come l’aveva chiamata Ponter, quella volta a Sudbury? “Il Fiume Notturno.”

Là, ecco l’Orsa Maggiore, ossia la Testa del Mammut Mary tracciò delle linee immaginarie per individuare la stella polare, che indicava inequivocabilmente il nord. Frugò nella borsetta per recuperare la bussola che si era portata su richiesta di Jock Krieger, solo che faceva troppo buio per poterla leggere. Perciò, dopo aver ammirato ancora per qualche minuto quel cielo stupendo, si diresse alla casa di Lurt, chiedendo al Companion di avvertirla del suo arrivo.

Un attimo dopo, la porta si aprì e comparve una neanderthal. — Ti auguro un giorno buono e pieno di salute — disse la donna; o almeno così tradusse l’apparecchiatura di Mary.

— Ciao — rispose lei. — Oh, solo un secondo… — Dalla porta aperta usciva un intenso fascio di luce. Mary gettò un’occhiata alla bussola che aveva tenuto in mano, aggrottò le sopracciglia per lo stupore. La lancetta puntava dritto sulla stella polare, proprio come avrebbe fatto dall’altro lato del varco. In barba all’ipotesi di Jock, pareva che su questo pianeta non si fosse verificata nessuna inversione dì campo magnetico.

L’accoglienza fu molto calorosa. Mary poté conoscere il bambino di Adikor, Dab, e tutto il resto della famiglia di Lurt. L’unico momento imbarazzante fu quando ebbe bisogno di andare al bagno. Lurt le mostrò la stanza, ma Mary non sapeva come si usasse. Dopo essere rimasta per un po’ a osservare tutto con un’espressione inebetita, uscì dal bagno e chiamò Lurt.

— Chiedo scusa — disse. — Ma, ecco… non assomiglia per niente ai bagni del mio mondo. Non ho idea di come si faccia a… a…

Lurt rise. — Oh, scusami tanto!… Ecco, prima bisogna inserire i piedi in queste staffe, quindi ci si aggrappa a questi anelli… cosi…

Mary comprese che, per riuscirci, avrebbe dovuto togliersi i pantaloni; sulla parete c’era un gancio che pareva messo lì allo scopo. In realtà la cosa filò piuttosto liscia; Mary emise giusto un gridolino di sorpresa quando, al termine dell’operazione, una specie di spugna le si accostò di sua iniziativa per ripulirla.

Un’altra peculiarità che notò fu l’assenza di una biblioteca interna. Nel suo bagno di Toronto erano accatastati i numeri più recenti dell’“Atlantic Monthly”, di “Canadian Geographic”, “Utne Reader”, “Country Music”, oltre alle immancabili parole crociate. Però, anche in caso di difficoltà, immaginava che i neanderthal si sarebbero spicciati il più in fretta possibile, data la sensibilità del loro olfatto.

Mary dormì su uno strato di cuscini sistemati sul pavimento. All’inizio le sembrò una soluzione scomoda, essendo abituata a una superficie piatta; poi però Lurt le mostrò come sistemare i cuscini nel modo giusto, a sostegno del collo e della schiena, tra un ginocchio e l’altro, eccetera. Per quanto fosse strano, Mary crollò rapidamente tra le braccia di Morfeo, esausta com’era.

Il mattino seguente accompagnò Lurt al posto di lavoro; un edificio che, a differenza della maggior parte di quelli del Centro, era realizzato interamente in pietra. Per contenere gli effetti di una fiammata o un’esplosione nel caso un esperimento andasse storto, le spiegò Lurt.

A quanto pareva, Lurt lavorava in staff con altre sei neanderthal. A Mary veniva già spontaneo suddividerle per generazione, anche se, invece di classificarle come 146, 145 eccetera (dall’inizio dell’Era moderna), come faceva Ponter, preferiva considerarle trentenni, quarantenni, e così via. Per quanto le donne lì invecchiassero in modo diverso rispetto alle sapiens, dato che la pressione dell’arcata sopracciliare sulla pelle preveniva le rughe, tuttavia Mary non ebbe difficoltà ad assegnare a ogni neanderthal la giusta età.

Ma non ci volle molto perché Mary smettesse di pensare a loro come neanderthal e cominciasse semplicemente a considerarle donne. Avevano, sì, un aspetto curioso: fisico da giocatori di football americano, volti pelosi… E sebbene fosse difficile considerare femminile il loro comportamento, quella parola portava con sé troppe aspettative, di certo erano donne quanto a piacevolezza, spirito di collaborazione, gusto per le chiacchiere, assenza di competitività: e alla fine stare con loro era un gran divertimento.

Mary apparteneva a una generazione (l’ultima, c’era da augurarsi) in cui nel campo scientifico operavano molte meno donne che uomini. Non aveva mai visto un laboratorio in cui ci fossero più femmine che maschi, anche se all’Università di York ci si stava avvicinando a quel risultato; ma un team interamente femminile, mai. Forse, in quel caso, l’ambiente di lavoro sarebbe risultato molto simile anche sulla sua Terra. Mary era cresciuta nello Stato dell’Ontario in cui, per ragioni storiche, esistevano due sistemi scolastici finanziati dal governo: quello pubblico e quello cattolico. Siccome la religione cattolica era insegnata solo negli istituti confessionali, molti genitori credenti mandavano i figli alla scuola cattolica; i genitori di Mary però, soprattutto su insistenza del padre, avevano optato per la scuola pubblica. Quando ebbe compiuto i 14 anni, si discusse se trasferirla a un istituto cattolico riservato alle ragazze. Mary aveva dei problemi con la matematica, e qualcuno aveva detto ai suoi genitori che si potevano ottenere risultati migliori in una classe separata. Alla fine, comunque, era stata lasciata nel sistema pubblico perché, come aveva sottolineato papà, dopo le superiori avrebbe dovuto frequentare i maschi, quindi era meglio che ci si abituasse. Perciò Mary aveva trascorso gli anni del liceo all’East York Collegiate Institute, invece che al Santa Teresa. Alla fine, pur in ambiente promiscuo, aveva superato le difficoltà con la matematica, eppure qualche volta si era chiesta come sarebbe andata in un collegio femminile. Era infatti vero che di lì erano uscite alcune delle migliori studentesse a cui lei, in seguito, avesse fatto lezione alla York.

Chissà, forse sarebbe valsa la pena ipotizzare di estendere la divisione tra sessi anche nell’età adulta, ai luoghi di lavoro. Le donne avrebbero potuto dedicarsi al “travaglio” (parola che, per un pasticcio linguistico, aveva assunto un significato diverso se riferito ai maschi o alle femmine) in ambienti privi di uomini e relativi egocentrismi.