— Cioè, ho… 39 anni.
— Esatto. Be’, diciamo che sei più o meno a metà della tua esistenza. Fatti questa domanda: tra altri… 39 anni, come dici… al termine della tua vita, ti pentiresti di non aver provato a costruire una relazione con Ponter?
— Sì, credo di sì.
— Ascolta con attenzione la domanda, amica Mèr. Non ti sto chiedendo se te ne pentiresti, in caso dovesse avere successo. Ti chiedo se te ne pentiresti, anche se dovesse fallire.
Mary socchiuse gli occhi, per quanto le lenti glieli riparassero a sufficienza. — Non sono sicura di capire.
— Il mio contributo al bene comune è la chimica — disse Lurt. — Attualmente. Ma non è stata la prima strada che avevo scelto. All’inizio volevo scrivere romanzi, inventare storie.
— Sul serio?
— Sì, ma fallii. Al pubblico non interessavano i miei racconti, le mie opere non ricevettero un’accoglienza positiva. Quindi ho dovuto scegliere un contributo diverso, e siccome avevo una certa propensione alla matematica e alla scienza, sono diventata una chimica. Però non mi pento di aver cercato di diventare scrittrice, anche se è finita male. Certo, sarebbe stato meglio avere successo, ma sapevo che sul letto di morte sarei stata più triste al pensiero di non averci provato, che di averci provato e aver fallito. Perciò mi ci sono buttata; con i risultati che ho detto. Se non altro, mi rende felice la consapevolezza di aver fatto il tentativo. — Altra pausa.—Ovviamente, tu sarai più felice se la relazione con Ponter andrà a buon fine. Ma, sul letto di morte, amica Mèr, sarai più felice al pensiero di averci provato, e aver fallito, piuttosto che non avere mai tentato?
Mary ci rifletté. Continuarono a camminare in silenzio per parecchi minuti; alla fine Mary disse: — Devo provarci. Mi odierei per tutta la vita, se non lo facessi. Almeno provarci.
— Allora — disse Lurt — il resto vien da sé.
33
Mancava ancora un giorno a che i Due diventassero Uno, ma Ponter e Mary si erano dati appuntamento al Padiglione degli archivi degli alibi. Ponter l’aveva portata all’ala sud, e adesso si trovavano di fronte a una parete a mini-scompartimenti, ognuno dei quali conteneva un cubo artificiale di granito delle dimensioni di un pallone. Mary aveva imparato a leggere i numeri neanderthaliani: l’archivio a cui Ponter aveva accostato il proprio Companion era il 16.321. Il cubo non aveva altri segni identificativi ma, come tutti gli altri, al centro di una delle sue facce si accendeva una lucetta blu.
Mary non riusciva a crederci. — La tua intera vita è registrata là dentro?
— Sì — rispose Ponter.
— Proprio tutto?
— Be’, tutto tranne i periodi trascorsi nel sottosuolo, al computer quantistico: i segnali del Companion non sono in grado di attraversare le migliaia di metri di roccia che lo sovrastano. Inoltre manca tutto il mio primo viaggio nel tuo mondo.
— Ma non il secondo?
— Il secondo viaggio ha cominciato a essere scaricato nell’archivio appena siamo usciti dalla miniera, al ripristinarsi del segnale di Hak. Qui dentro, ora, è contenuta la registrazione completa.
Mary non sapeva come prendere la notizia. Non era mai stata una cattolica bigotta, ma in quelle immagini figurava come attrice di un film porno.
— Stupefacente — disse. Lilly, Kevin e Frank sarebbero stati disposti a passare sul cadavere delle loro madri, per avere accesso a quel luogo. Mary osservò di nuovo il blocco di granito. — È possibile modificare o cancellare le immagini registrate?
— Perché si dovrebbe fare una cosa del genere? — chiese Ponter. Poi distolse gli occhi. — Chiedo scusa, era una domanda idiota.
Mary scosse la testa. Nonostante fossero venuti lì per quello, non aveva in mente lo stupro. — Veramente, pensavo solo al mio primo matrimonio.
E d’un tratto arrossì. Prima di allora, non lo aveva mai definito il suo primo matrimonio. — Comunque, procediamo.
Ponter annuì. Si recarono in reception, dove lui parlò con una donna di una certa età. — Vorrei avere accesso al mio archivio, per favore.
— Identità? — chiese la donna. Ponter fece passare l’avambraccio sopra uno scanner. La custode osservò lo schermo. — Ponter Boddit? — esclamò. — Pensavo fossi morto.
— Spiritosona — commentò lui.
La donna sorrise. — Seguitemi. — Li precedette fino al punto in cui i due si erano fermati in precedenza. Ponter espose Hak alla luce blu del suo archivio. — Io, Ponter Boddit, desidero visionare il mio archivio degli alibi, per semplice curiosità. Registrazione dell’ora di apertura.
La luce diventò gialla.
Toccò alla donna esibire il proprio Companion. — Io, Mabla Dabdalb, Custode degli alibi, attesto che l’identità di Ponter Boddit è stata certificata in mia presenza. Registrazione dell’orario di apertura. — La luce diventò rossa, e si udì un segnale acustico.
— Tutto in ordine — disse Dabdalb. — Potete utilizzare lo stanzino numero 7.
— Grazie — disse Ponter. — Ti auguro salute.
— Anche a voi — disse la Custode, tornando alla scrivania.
Ponter, seguito da Mary, raggiunse lo stanzino di proiezione. Per la prima volta Mary si rese conto di come si fosse sentito Ponter nel mondo dei gliksin, con mille occhi puntati addosso a seguire ogni suo movimento. Mary cercò di non lasciar trapelare il disagio.
La stanza era fornita di una piccola consolle gialla, appesa a mezza altezza al muro, e di due tipiche selle, che probabilmente i neanderthal preferivano a causa del loro bacino molto largo. Ponter andò al pannello di controllo e cominciò a estrarre dei comandi dalla sua superficie. Mary spiava da dietro la sua spalla. — Niente pulsanti?
— Pulsanti? — disse Ponter.
— Intendevo: interruttori che si azionano premendoli.
— Oh, in qualche strumento ci sono, ma solo di rado, perché c’è il rischio che qualcuno li prema per errore, scivolando o inciampando. Riteniamo più sicuro il metodo di estrarre i comandi.
A Mary tornò alla memoria quell’episodio di Star Trek in cui Spock, nientemeno, premeva per sbaglio dei pulsanti mentre si rialzava di scatto, e così avvertiva i Romulani della presenza dell’Enterprise. — Buona idea — disse Mary.
Ponter proseguì l’operazione. — Perfetto — disse alla fine. — Ci siamo.
Con gran meraviglia di Mary, in mezzo alla stanza si materializzò una sfera fluttuante. Poi si suddivise in sfere sempre più piccole, a diverse gradazioni di colore. La frammentazione proseguì finché Mary non riconobbe che si trattava di un’immagine 3-D dell’interrogatorio di polizia avvenuto a Toronto. Ecco l’investigatore Hobbes che rivolgeva loro la schiena, parlando con un agente. Ed ecco Mary, più in carne di quanto avrebbe desiderato, e Ponter. Il quale, con una mossa fulminea, afferrò il faldone lasciato sulla scrivania da Hobbes, e lo sfogliò velocissimo. Le pagine scorrevano troppo in fretta perché Mary potesse leggerle, ma a quel punto Ponter “riavvolse” e poi fece ripartire le immagini al rallentatore. Nessuna sfocatura dovuta al movimento: il testo scritto sui fogli era perfettamente leggibile, anche se per farlo Mary dovette piegare il collo in una posizione abbastanza scomoda.
— Allora? — chiese Ponter.
— Un attimo solo… — rispose Mary, che ancora non sapeva esattamente che cosa cercare. — No, qui non c’è niente. Puoi avanzare alla pagina successiva, per favore? Ecco. Ferma qui. Okay, e ora…
All’improvviso Mary sentì torcersi lo stomaco. — Oh mio Dio — disse. — Oh mio Dio.
— Che cos’hai visto? — chiese Ponter.
Mary barcollò all’indietro. Andò a sbattere contro una sella, vi si appoggiò. — L’altra vittima… — disse.