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Sei

Durante quei giorni che ho passato a riprendere confidenza con la casa, ho incontrato Marietta un paio di volte (ho persino intravisto Zabrina in qualche occasione anche se non ha dimostrato alcun interesse a conversare con me e si è affrettata ad allontanarsi). Ma di Luman, dell’uomo che secondo Cesaria avrebbe potuto istruirmi, nemmeno l’ombra. Forse la mia matrigna aveva deciso di non concedermi l’accesso ai suoi segreti? O forse semplicemente si era dimenticata di dire a Luman che sarebbe stato lui la mia guida? Dopo un paio di giorni ho deciso di andarlo a cercare da solo, per dirgli quanto desiderassi cominciare il mio lavoro, ma che non avrei potuto farlo senza conoscere le storie a cui aveva accennato Cesaria, storie che non potevo nemmeno immaginare.

Luman, come ho già detto, non vive nella casa principale, anche se Dio sa se non c’è abbastanza spazio, abbastanza stanze vuote all’Enfant, per ospitare più di una famiglia. Preferisce vivere in quella che un tempo era la Casa del Fumo; un edificio modesto che, a suo avviso, è molto più adatto a lui. Fino a quel momento non mi ero mai avvicinato più di tanto a quel luogo, e mi ero guardato bene dall’entrarvi; Luman è sempre stato terribilmente attaccato al suo isolamento.

Tuttavia, la mia crescente irritazione mi ha reso più audace. Mi sono fatto portare lì da Dwight, giù lungo quello che un tempo era stato un sentiero piacevole ma che adesso era incolto e invaso dalle erbacce. L’aria si è fatta decisamente più pesante, e in alcuni punti era affollata di zanzare. Ho acceso un sigaro per tenerle a bada e dubito che la cosa abbia funzionato, ma un buon sigaro mi mette sempre di buon umore, così ho smesso di interessarmi al fatto che gli insetti stessero facendo di me la loro cena.

Mentre ci avvicinavamo alla porta, ho notato che era socchiusa e che all’interno qualcuno si stava muovendo. Luman sapeva che ero lì, e forse sapeva anche perché.

“Luman? Sono Maddox! Ti va bene se Dwight mi porta dentro? Dovrei parlarti.”

“Non abbiamo niente di cui parlare”, la risposta è giunta dalla semioscurità.

“Non sono d’accordo.”

Il volto di Luman è comparso dietro la porta socchiusa. Sembrava stordito, come un uomo che si è appena lasciato andare non a uno ma a molti eccessi. La sua faccia larga e bronzea luccicava di sudore, aveva le pupille a capocchia di spillo e le cornee ingiallite. La sua barba probabilmente non veniva né accorciata né lavata da diverse settimane.

“Gesù”, ha ringhiato. “Non puoi lasciar perdere e basta?”

“Hai parlato con Cesaria?” gli ho domandato.

Si è passato una mano tra i capelli, tirandoseli indietro con tale violenza da farlo apparire un atto di masochismo. Le pupille gli si sono dilatate all’improvviso fino a raggiungere le dimensioni di un quarto di dollaro. Quello era un trucco che non gli avevo mai visto fare prima, e sono rimasto così sorpreso che mi sono quasi lasciato scappare un grido. Ma ho cercato di trattenermi. Non volevo che pensasse di essere in una posizione di superiorità. Somigliava troppo a un cane impazzito. Se avesse sentito la paura in me ero certo che mi avrebbe perlomeno cacciato via. E nel peggiore dei casi? Chi poteva dire che cosa sarebbe stata capace di fare una creatura dalla mente perversa come lui? Probabilmente qualunque cosa.

“Sì”, ha detto alla fine, “mi ha parlato. Ma non penso che tu abbia bisogno di vedere la roba che lei vuole mostrarti. Non sono affari tuoi.”

“Lei pensa di sì.”

“Ah.”

“Ascolta, possiamo almeno parlare lontani dalle zanzare?”

“Non ti piace farti mordere?” ha detto lui con un piccolo ghigno cattivo. “Oh, a me piace spogliarmi e farmi mangiare da loro. Mi manda su di giri.”

Forse sperava di respingermi con quel commento, di farmi andare via, ma non avevo intenzione di dargliela vinta così facilmente. Ho continuato a fissarlo.

“Hai un altro di quei sigari?”

Ero venuto preparato. Non solo avevo altri sigari, avevo anche del gin e, nel caso avessi dovuto sedurlo intellettualmente, un piccolo pamphlet sui manicomi della mia collezione personale. Molti anni prima, Luman aveva trascorso alcuni mesi incarcerato a Utica, un istituto nella parte nord dello stato di New York. Un secolo dopo (così mi aveva detto Marietta) era ancora ossessionato dal fatto che un uomo sano potesse essere scambiato per pazzo e che un pazzo potesse essere messo a capo del Congresso. Ho preso prima il sigaro.

“Ecco”, ho detto.

“È cubano?”

“Naturalmente.”

“Lanciamelo.”

“Te lo può portare Dwight.”

“No. Lanciamelo.”

Ho gettato gentilmente il sigaro verso di lui. È caduto a una trentina di centimetri dalla soglia. Lui si è chinato e lo ha raccolto, facendoselo scivolare tra le dita e annusandolo.

“Ottimo”, ha detto soddisfatto. “Li tieni in un portasigari?”

“Sì. Con questa umidità.”

“Certo, certo”, ha detto lui, con un timbro di voce chiaramente meno ostile. “Be’, allora”, ha continuato, “faresti meglio a portare qui il tuo povero culo.”

“È un problema se Dwight mi accompagna?”

“Basta che poi se ne vada”, ha risposto Luman. Poi, rivolgendosi a Dwight: “Senza offesa. Ma questa è una faccenda tra me e il mio fratellastro”.

“Capisco”, ha detto Dwight, mi ha preso tra le braccia e mi ha portato fino alla porta che Luman ha spalancato. Mi sono sentito investire da un’ondata di calore maleodorante; la puzza di un porcile in piena estate.

“Mi piace questo odore”, ha spiegato Luman. “Mi ricorda il vecchio paese.”

Non ho detto niente; ero — non so quale sia la parola adatta — sbalordito, forse atterrito, dalle condizioni interne dell’edificio.

“Mettilo sulla vecchia culla, là”, ha ordinato Luman indicando uno strano letto-bara vicino al caminetto. Ancora peggiore della culla stessa — che sembrava più che altro uno strumento di tortura e non un luogo di riposo — era il fatto che il caminetto era tutt’altro che freddo: lì stava bruciando un grande fuoco fumoso. Nessuna meraviglia che Luman sudasse così copiosamente.

“È sicuro?” mi ha chiesto Dwight, chiaramente preoccupato per me.

“Andrà tutto bene”, ho risposto. “Non mi farebbe male dimagrire un po’.”

“Potresti”, ha detto Luman. “Devi essere in forma per combattere. Tutti noi dobbiamo esserlo.”

Si è acceso un fiammifero, e con la cautela del vero appassionato ha lentamente fatto ardere la punta del sigaro. “Mio Dio”, ha sospirato, “davvero ottimo. Mi piace essere corrotto così, fratello. Se un uomo sa come corrompere, vuol dire che è stato educato a dovere.”

“Visto che siamo in argomento…” l’ho interrotto. “Dwight, il gin.”

Dwight ha appoggiato la bottiglia sul tavolo completamente coperto di detriti come ogni altra superficie della tana infernale di Luman.

“Be’, sei veramente molto gentile”, ha detto Luman.

“E questo.”

“Mio Dio, mio Dio, un’autentica pioggia di regali oggi, vero?” Gli ho dato il libro. “Che cos’è?” Ha guardato la copertina. “Oh, questo sì che è interessante, fratello.” Ha sfogliato il libro riccamente illustrato. “Mi chiedo se ci sia una fotografia della mia piccola vecchia culla.”

“Questa viene da un manicomio?” ho chiesto, abbassando lo sguardo sul letto su cui mi aveva adagiato Dwight.

“Certo. Sono stato incatenato lì per duecentocinquantacinque notti.”

“Qui dentro?”

“Lì dentro.”

Mi si è avvicinato e ha alzato una coperta sudicia su cui ero seduto per farmi osservare meglio la scatola stretta e crudele dentro la quale era stato chiuso. Le cinghie erano al loro posto.