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“Senti l’odore dell’aria, qui?”

“Puzza di chiuso.”

“Puzza di morte. Nessuno ci viene, capisci? Nemmeno lei.”

“Come mai?”

“Perché ti fotte la testa”, ha risposto lui, voltandosi per lanciarmi un’occhiata. Non sono riuscito quasi a vedere la sua espressione nella semioscurità, ma sono certo che sul suo volto ci fosse quel ghigno dai denti ingialliti. “Naturalmente tu sei più sano di mente di quanto io sia mai stato, o forse non ti turberà così tanto perché hai un controllo migliore di te stesso. D’altra parte… forse ti spezzerai, e dovrò metterti nella mia piccola culla per la notte, così non potrai farti del male.”

Ho fermato bruscamente la sedia a rotelle. “Sai una cosa?” ho detto. “Ho cambiato idea.”

“Non puoi”, ha detto Luman.

“Non voglio più andarci.”

“Non è buffo? Prima sono io che non ti ci voglio portare, e adesso che ti ci ho portato tu non ci vuoi più andare. Vedi di deciderti.”

“Non ho intenzione di rischiare la mia sanità mentale.”

Luman ha finito la bottiglia di gin. “Capisco”, ha detto. “Be’, un uomo nelle tue condizioni non ha altro che la sua mente, giusto? Una volta che anche quella è andata non ha più niente.” Ha fatto un passo o due verso di me. “D’altra parte, se non entri, non potrai scrivere il tuo libro, per cui devi scegliere.” Si è spostato la bottiglia da una mano all’altra e viceversa, come per sottolineare le sue parole. “Libro. Mente. Libro. Mente. Tocca a te decidere.”

In quell’istante, l’ho odiato; semplicemente perché quello che aveva detto era vero. Se mi avesse lasciato sotto la cupola, e avessi perso la ragione, probabilmente non sarei più stato in grado di mettere le parole in un ordine sensato. D’altra parte, se non avessi rischiato la follia e avessi semplicemente scritto quello che già sapevo, non mi sarei forse chiesto per sempre quanto più ricca, quanto più vera sarebbe stata la mia opera se solo avessi avuto il coraggio di vedere ciò che la stanza aveva da mostrarmi?

“È una tua scelta”, ha detto Luman.

“Tu cosa faresti?”

“Lo vuoi sapere sul serio?” ha ribattuto lui, sinceramente sorpreso dal mio interesse nella sua opinione. “Be’, non è bello essere pazzi, non è per niente bello. Ma, per come la vedo io, non ci resta molto tempo. Questa casa non starà in piedi per l’eternità e quando crollerà, qualunque cosa potresti vedere là dentro…” ha indicato il corridoio davanti a me, in direzione delle scale che conducevano alla cupola “… sarà perduta per sempre. Quando questa casa crollerà, non ci saranno più visioni per te. Per nessuno di noi.”

Ho fissato il corridoio.

“Immagino che questa sia la mia risposta, allora”, ho sospirato.

“Quindi entri?”

“Sì, entro.”

Luman ha sorriso. “Aspetta”, ha detto, e poi ha fatto una cosa straordinaria. Ha sollevato me e la sedia a rotelle e ci ha portati entrambi su per le scale. Ho trattenuto il fiato, temendo che potesse farmi cadere o scivolare lungo la rampa. Ma abbiamo raggiunto la cima delle scale senza problemi. C’era uno stretto pianerottolo con un’unica porta.

“Ti lascio qui”, ha detto Luman.

“Non ti spingi oltre?”

“Lo sai come si apre una porta”, ha osservato lui.

“Che cosa succederà quando sarò dentro?”

“Scoprirai che sai anche questo.” Mi ha appoggiato una mano sulla spalla. “Se hai bisogno di qualcosa, chiama.”

“Tu sarai qui?”

“Dipenderà da come mi prende l’umore”, ha replicato lui, quindi è corso giù per le scale. Avrei voluto chiamarlo, ma ero a corto di tattiche per prendere tempo. Era arrivato il momento di farlo, se davvero me la sentivo.

Mi sono avvicinato alla porta, girandomi una sola volta per controllare se Luman era ancora in vista. Era scomparso. Ero rimasto solo. Ho fatto un profondo respiro e ho afferrato la maniglia della porta. C’era ancora una piccola parte di me che sperava che la porta fosse chiusa a chiave, che sperava che non sarei potuto entrare. Ma la porta si è aperta, quasi troppo prontamente, come se dall’altra parte mi attendesse un ospite molto zelante.

Avevo una vaga idea di ciò che avrei trovato dall’altra parte, almeno dal punto di vista architettonico. La stanza della cupola — detta anche “stanza del cielo”, come Jefferson aveva ribattezzato la sua a Monticello — era un ambiente in qualche modo strano ma bellissimo (così mi aveva detto Marietta, che ci era sgattaiolata una volta in compagnia di una delle sue amanti). A Monticello era stata usata come stanza dei giochi per i bambini, perché era difficile da raggiungere, ma la versione dell’Enfant trasmetteva un vago disagio; nessun bambino sarebbe mai stato felice di giocare lì. Anche se c’erano otto finestre e un lucernario, quel luogo era, per usare le parole di Marietta, “un tantino angosciante”.

Ho spalancato la porta con un piede, quasi aspettandomi di essere investito da un volo di uccelli o di pipistrelli. Ma la stanza era deserta. Non c’era nemmeno un solo mobile a rovinarne l’assoluta semplicità. Solo la luce delle stelle che filtrava da nove aperture.

“Luman”, ho mormorato tra me e me, “figlio di puttana…”

Mi aveva preparato per qualcosa di ben più spaventoso; un delirio, un assalto di visioni così violente capaci di farmi perdere la ragione. Ma lì non c’era niente, tranne la semioscurità.

Mi sono spinto avanti per un paio di metri, cercando attorno a me un buon motivo per avere paura. Non ho trovato niente. Ho continuato ad avanzare, provando un miscuglio di delusione e sollievo. Non c’era niente da temere, lì. La mia sanità mentale non correva alcun rischio.

A meno che, naturalmente, quel senso di sicurezza non fosse deliberatamente illusorio. Mi sono voltato a lanciare un’occhiata in direzione della porta. Era ancora aperta; ancora solida. E oltre la porta, c’era il pianerottolo dove insieme a Luman avevo discusso dell’eventualità di entrare o meno. Che bersaglio facile ero stato; doveva essersi divertito terribilmente nel vedere il mio disagio! Imprecando di nuovo contro di lui, ho distolto lo sguardo dalla porta e ho ricominciato a scrutare l’oscurità. Questa volta però, con mio grande stupore, mi sono accorto che la stanza del cielo non era così vuota come avevo pensato in un primo momento. A qualche metro da me — nel punto in cui si intersecavano le luci delle nove finestre — c’era una forma che vibrava tra le ombre, così sottile che all’inizio sono stato certo che non fosse nemmeno reale. Ho continuato a fissarla, resistendo all’impulso di sbattere le palpebre per paura che sarebbe svanita. Ma è rimasta davanti a me, e il suo movimento si è intensificato. Mi sono spinto in direzione della forma; lentamente, lentamente, come un cacciatore che si avvicina alla sua preda, cercando di non spaventarla. Ma la forma non si è allontanata. Né è diventata meno misteriosa. Ho continuato ad avvicinarmi con minor cautela, e ben presto mi sono trovato al centro della stanza, proprio sotto il lucernario. C’erano sagome nell’aria tutto attorno a me, sagome così evanescenti che non ero del tutto sicuro che esistessero davvero. Ho alzato lo sguardo sul mio zenit: ho visto le stelle attraverso il lucernario, ma non c’era niente che potesse proiettare quelle ombre mutevoli. Ho osservato le pareti, spostando gli occhi da una finestra a quella successiva, in cerca di una spiegazione. Ma non ho trovato niente. Dalle finestre filtrava un po’ di luce, ma non c’era alcuna traccia di movimento: un ramo sospinto dal vento, il battito di ali di un uccello su un davanzale. Qualunque cosa stesse proiettando le ombre, era lì nella stanza con me. Ho smesso di scrutare le finestre, borbottando confuso tra me e me, e ho avuto la sgradevole sensazione di essere osservato. Ho guardato di nuovo verso la porta, pensando che Luman potesse essere tornato di soppiatto per spiarmi. Ma no: il pianerottolo era deserto.