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Sono andato da Galilee, ieri notte, come aveva fatto Nickelberry. Non so di preciso perché; non provavo alcun desiderio di stare con lui. Almeno, non lo stesso tipo di desiderio che provo quando sto con una donna. Né lui me lo aveva chiesto, anche se quando gli ho parlato, mi ha confessato di aver desiderato di sentire le mie braccia attorno a lui, le mie labbra sulle sue. Non dovevo vergognarmi, ha detto, di provare piacere in quel modo. Molti uomini se lo negavano; solo i più coraggiosi accettavano la sfida.

Io gli ho detto che non mi sentivo coraggioso. Avevo paura dell’atto che stavamo per compiere; paura dette sue conseguenze per la mia anima e, soprattutto, paura di lui.

Galilee non ha rìso per quella mia confessione. Invece mi ha preso teneramente tra le braccia, come se fossi stato qualcosa di infinitamente prezioso. Mi ha detto di ascoltarlo. Mi avrebbe raccontato una storia per allontanare le mie paure…

Una storia? Com’era possibile? Un altro Galilee che raccontava storie?

e io mi sono sentito come un bambino tra le sue braccia, e una parte di me ha desiderato fuggire. Ma la sua presenza era così confortante per il mio spinto tormentato che il bambino che era in me, che non parlava più da molti, molti anni, mi ha detto: resta. Voglio ascoltare la storia. E io sono rimasto, obbedendo al bambino, e tutti gli orrori a cui avevo assistito, la morte, il dolore, si sono trasformati in una specie di sogno fatto tra le braccia di Galilee.

La storia che mi ha narrato sembrava una favola ma a poco a poco è diventata sempre più strana, suscitando in me ogni genere di sentimenti. Era la stona di due principi che vivevano, ha detto Galilee, in un paese molto lontano da qui, dove i ricchi erano giusti…

e i poveri avevano Dio. Rachel conosceva quel paese. Era lì che aveva vissuto Jerusha, la sposa bambina. Era la terra inventata da Galilee.

Rachel rimase immobile, assordata dal lamento del suo stesso sangue, mentre leggeva e rileggeva quella riga, come in attesa che diventasse qualcos’altro.

Era la storia di due principi…

Ma no; le parole rimanevano le stesse. Non poteva più evitare la verità anche se era difficile — oh, più che difficile, quasi impossibile — affrontarla. Ma Rachel non aveva scelta. Ormai la somma delle prove portava a un risultato inequivocabile.

Quel Galilee, quello descritto nelle pagine davanti a lei, quell’uomo che aveva vissuto centoquarant’anni prima, quell’uomo era lo stesso Galilee di cui era innamorata. Non suo padre o suo nonno: lui. La stessa carne e lo stesso sangue e le stesse ossa; lo stesso spirito che animava quella carne e quel sangue e quelle ossa; la stessa anima.

Rachel accettò quell’idea, anche se gettava nel caos tutte le sue convinzioni sul mondo. Non avrebbe indugiato oltre nella speranza di scoprire qualcosa a cui sarebbe stato più facile credere. In quel caso, non avrebbe fatto altro che tormentarsi inutilmente; rimandando il momento in cui avrebbe dovuto affrontare la realtà e cercare di comprenderne il senso.

Non che lui le avesse mai mentito. Al contrario. Aveva detto più volte di essere diverso da lei. Aveva detto che i suoi genitori non avevano avuto genitori. Ma lei non aveva voluto capire. La sua infatuazione per lui era stata troppo profonda e l’aveva spinta a rifiutare qualsiasi cosa potesse rovinare il loro idillio.

Ma d’ora in avanti non avrebbe più negato la realtà. Era tempo di accettare la verità, per quanto strana potesse essere. Più di un secolo prima, Galilee aveva usato gli stessi trucchi, di cui si era servito con lei, per sedurre il capitano Holt. L’immagine dei due uomini avvinghiati le invase la mente: Holt simile a un bambino tra le braccia del suo amante, cullato in uno stato di passività dalla storia che Galilee stava narrando.

In un paese molto lontano da qui, vivevano due principi… A Rachel non importava cosa sarebbe successo, né ai principi né agli uomini che rappresentavano. Il desiderio di continuare a leggere l’aveva abbandonata di colpo. Quel diario le aveva detto tutto ciò che doveva sapere. Anche di più.

Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e si alzò, chiudendo il diario di scatto. Le girava la testa e aveva caldo, come se avesse avuto l’influenza. Andò in cucina, bevve un bicchiere d’acqua, poi decise di tornare a letto. Forse, dopo qualche ora di sonno, si sarebbe sentita meglio. E adesso che era finalmente libera dalle parole del capitano, era molto più probabile che riuscisse a riposarsi davvero.

Con il bicchiere in mano, tornò in camera da letto. Erano passate da poco le cinque. Rachel posò il bicchiere e si sdraiò, pensando che avrebbe comunque potuto prendere un’altra mezza pastiglia di sonnifero se fosse stato il caso. Ma mentre dava forma a quel pensiero, lo sfinimento ebbe la meglio su di lei.

2

Un paio d’ore fa sono andato a dormire, convinto di aver raggiunto un’adeguata conclusione per la Parte Sesta. Ma eccomi qua ad aggiungere questi paragrafi.

Cosa mi ha spinto ad alzarmi per offrirvi un altro sogno? Lo racconto qui non perché sia profetico come il mio sogno su Galilee sulla zattera, ma perché mi ha commosso in modo strano.

Era un sogno sui figli di Luman.

Questo è già strano di per sé, perché sono diverse settimane che non penso alla nostra conversazione sui suoi bastardi. Ma è evidente che il mio inconscio si è soffermato sull’argomento e il risultato delle sue elaborazioni ha prodotto qualcosa di veramente bizzarro. Ho sognato di essere un pezzo di carta; un foglio di carta malconcio. Il vento mi aveva catturato e stavo volando attraverso un immenso paesaggio. In certi momenti, venivo sollevato in alto nell’aria e osservavo le città che erano sotto di me, e i loro abitanti erano come puntini; in altri, rotolavo lungo una strada polverosa insieme ad altri detriti. Ho visto canyon e città, ho penzolato da cancelli appuntiti e pali telefonici; ho languito nel calore dell’estate della Louisiana e sono sparito dentro pile di foglie cadute, in Vermont; sono rimasto congelato in Nebraska e sono stato trasportato da un fiume nel Wisconsin. A poco a poco, un senso di imminenza si è impossessato di me. Il paesaggio intorno a me continuava a mutare — picchi montagnosi, una spiaggia piena di palme, un campo di papaveri e violette — ma io sapevo che il mio viaggio stava per concludersi.

La mia destinazione era un luogo tutt’altro che promettente. Un quartiere misero di una cittadina dell’Idaho; una terra desolata fatta di edifici sventrati, macerie ed erba grigia. E là, un uomo sedeva nella carcassa di un furgone e, quando mi sono fermato ai suoi piedi, lui si è chinato a raccogliermi. È stata una strana sensazione essere stretto da quelle dita macchiate di nicotina, ma non appena ho visto il volto dell’uomo ho capito che era uno dei figli di Luman. Aveva qualcosa della febbre satirica di mio fratello e qualcosa della sua curiosità incessante, anche se entrambi i tratti erano stati offuscati dalle avversità.

Ho avuto l’impressione che l’uomo si rendesse conto che non ero solo una cartaccia sospinta dal vento, perché ha gettato via la sigaretta, si è alzato dal sedile del veicolo in rovina e ha gridato:

“Ehi! Ehi! Guarda cos’ho trovato!”

Non è rimasto ad aspettare una risposta ma si è diretto a grandi passi verso i resti di un’officina, le pompe di benzina come sentinelle arrugginite davanti a un edificio cadente. È comparsa una donna nera di mezza età e i suoi lineamenti mi hanno rivelato che senza ombra di dubbio doveva essere nipote di Cesaria.

“Cosa c’è, Tru?” ha chiesto all’uomo.

Lui le ha mostrato ciò che aveva appena trovato e lei mi ha esaminato.