“Era la sua specialità”, ha detto Luman. “Era il suo dono.”
“Era… fisico?” gli ho chiesto, dando voce a una domanda che mi aveva tormentato per anni. Luman mi ha guardato, inespressivo. “Il suo dono”, ho insistito. “Oh, andiamo, Luman, sai di cosa sto parlando. Era così che conquistava le donne?” Ho abbassato lo sguardo sul mio inguine. “Con questo?”
“Mi stai chiedendo quanto era grande il suo cazzo?” ha detto Luman. Io ho annuito. “Be’, a giudicare dai miei attributi, direi notevole. Ma penso che non fosse solo questo. Se non sai come usarlo…” ha sospirato. “Io non sono mai stato molto bravo, sai? È sempre stato il mio problema. Molta sostanza ma niente stile. Ho gli attributi di uno stallone ma scopo come un mulo zoppo.” Finalmente sono scoppiato a ridere, cosa che ha fatto molto piacere a Luman. “Be’, certamente adesso ci conosciamo meglio di quanto ci conoscevamo cinque minuti fa”, ha detto. Poi, con voce più bassa: “Depravato”.
Abbiamo parlato ancora un po’ prima che tornassi nel mio studio: Luman in piedi sulla soglia, io fuori, sotto la pioggia. Mio fratello mi ha proposto di andare con lui a visitare la tomba di Nicodemus, un giorno o l’altro. Io ho accettato e ho aggiunto che avremmo fatto meglio a non aspettare troppo, nel caso gli eventi fossero precipitati, negandoci per sempre quell’opportunità. La reazione di Luman è stata molto interessante.
“Allora siamo in guerra?” ha chiesto lui. “Dobbiamo aspettarci un’invasione da un momento all’altro?”
Gli ho detto che non lo sapevo ma che la Casa dei Geary aveva vissuto momenti di grande instabilità ultimamente e quel fatto era certamente preoccupante.
“Se tu sei preoccupato, allora anch’io sono preoccupato”, ha detto Luman. “Comincerò a lucidare i miei coltelli, stanotte. Hai una pistola?”
“No.”
Lui è entrato in casa e pochi istanti dopo è ricomparso, tenendo in mano una pistola antiquata. “Tieni”, mi ha detto. “Dove l’hai presa?” ho domandato.
“Apparteneva a Nub Nickelberry”, ha risposto Luman. “Me l’ha regalata quando se n’è andato. In realtà è stato Galilee a convincerlo a lasciarmela. Ha detto a Nickelberry che non gli sarebbe più servita, che aveva già tutta la protezione di cui avrebbe mai avuto bisogno.”
“Parlava di sé?”
“Immagino di sì.” Mi ha offerto di nuovo l’arma. “Coraggio, Eddie, prendila. Anche se pensi che non la userai mai. Sarò più tranquillo sapendo che hai qualcosa con cui difenderti oltre alla tua penna che, lasciamelo dire, non ti sarà di alcun aiuto se le cose si metteranno male.”
Io ho preso la pistola. Era una Griswold e Gunnison, come avrei scoperto più tardi, un’arma semplice e solida.
“È già carica”, ha detto Luman. “Ma non ho altre pallottole, quindi pensaci bene prima di sparare. Ehi! Non puntarmela addosso. Quando è stata l’ultima volta che ne hai usata una?”
“Molto tempo fa”, ho ammesso. “È una strana sensazione.”
“Be’, non devi avere paura. Gli incidenti accadono solo a chi ha paura di maneggiare le armi. Sei tu che la impugni, non il contrario. Mi hai capito?”
“Certo. Grazie, Luman.”
“È un piacere. Vedrò cos’altro riesco a scovare. Da qualche parte devo avere una bellissima sciabola fatta a Nashville. Durante la guerra, c’era una fabbrica dove fondevano gli aratri per forgiare spade.”
“Molto biblico.”
“Sai cos’altro ho?” Stava sorridendo da un orecchio all’altro, adesso. “Ho un tamburo militare dei Confederati.”
“Di Nickelberry?”
“No… l’ho avuto da Marietta poco prima della fine della guerra. Lo aveva trovato in una trincea da qualche parte. Insieme al cadavere di chi lo aveva suonato. E visto che a lui non sarebbe più servito, me lo ha portato. Dovrò riprendere a usarlo. Ha un bel suono. Ideale per dare l’allarme…” Il suo sorriso è scomparso un’altra volta; ora stava fissando la pistola che tenevo in mano. “Strano”, ha detto. “Dopo tutti questi anni, rispolverare cose che pensavo non ci sarebbero mai più servite.”
“Forse non dovremo usarle.”
“Chi vuoi prendere in giro?” ha detto. “È solo una questione di tempo.”
Due
1
Sono tornato nel mio studio completamente fradicio ma stranamente rinvigorito dalla conversazione con Luman. Mentre mi toglievo i vestiti bagnati, mi sono guardato attorno e mi sono reso conto di quanto la mia stanza fosse sprofondata nel caos: pile di appunti dovunque, libri e giornali ammucchiati in ogni angolo. Era tempo di rimettere in ordine, mi sono detto, di prepararmi per le battaglie che mi attendevano, quali che fossero. Ho cominciato subito, senza neanche infilarmi un paio di calzini sporchi. Nudo come un neonato, mi sono messo al lavoro, esaminando tutto ciò che avevo accumulato nei mesi che avevo trascorso scrivendo. Non è stato diffìcile riporre i libri sugli scaffali, radunare i giornali e le riviste che alla fine ho lasciato fuori dalla porta del mio studio perché Dwight li gettasse via. La vera sfida sono stati i miei appunti, che ormai ammontavano a molte centinaia di pagine. Alcuni fogli raccoglievano le mie ispirazioni notturne, che avevo scarabocchiato nell’oscurità quando mi ero svegliato da un sogno; altri erano coperti di disegni che avevo fatto nei giorni in cui la mia penna si era rifiutata di muoversi. Alcuni sembravano gli appunti di un poeta dislessico, altri sembravano i tentativi di un paranoico di esplorare la metafisica; i peggiori erano del tutto incomprensibili.
Non me ne ero ancora sbarazzato per paura che ci fosse qualcosa tra quelle carte di cui avrei potuto avere bisogno un giorno o l’altro. Ma era arrivato il momento di buttarli via. D’ora in avanti avrei proseguito il mio lavoro con meno intralci. La storia condensata del guerriero Timur-i-leng, per esempio, le cui ossa giacevano a Samarcanda: non me ne sarei mai servito. Via. I miei appunti sulla conformazione dei genitali delle iene; tutte cose molto interessanti ma di nessuna rilevanza. Via. Le mie elucubrazioni sulla natura dei miei sforzi, perlopiù riflessioni pretenziose, scritte mentre ero ubriaco. Via. Non c’era più spazio per quel genere di cose; non ora che ci stavamo preparando per una guerra.
Quando ho finito, era ormai buio e io ero esausto. Ma era uno sfinimento piacevole; avevo ottenuto qualcosa: riuscivo di nuovo a vedere il tappeto. La mia scrivania era sgombra, occupata soltanto dalla mia unica copia del libro, da una pila di fogli e dalla pistola che mi aveva dato Luman.
Restava un’unica cosa da fare. Tutti quegli inutili appunti dovevano essere distrutti. Non volevo che, un domani, qualcuno potesse leggere i miei vaneggiamenti sentimentali e i miei errori di ortografia; né volevo rischiare di tornare a leggerli io stesso in qualche momento di debolezza. Con le braccia cariche di fogli, sono uscito sul prato. Ero ancora nudo ma, che diavolo?, nessuno avrebbe perso tempo a spiarmi. Così, ho lasciato cadere i fogli nell’erba. Poi ho acceso un fiammifero e li ho incendiati. Mi sono seduto sul prato ancora umido di pioggia e ho brindato con un bicchiere di gin alla salute di quelle pagine che venivano consumate a una a una dalle fiamme. Di tanto in tanto scorgevo una frase che subito dopo veniva divorata dal fuoco e mi sentivo trafiggere dal rimorso. Non c’era modo di recuperare ciò che stavo bruciando; le riflessioni, almeno. Certo, per quanto riguardava i fatti, avrei sempre potuto ricostruirli. Ma le sensazioni che avevo annotato? Stavano scomparendo per sempre.
Oh Signore! Qualche minuto prima ero di ottimo umore, ma adesso ero nauseato. Quel maledetto libro mi stava consumando. Ero stanco di ascoltare tutte quelle voci nella mia testa. Stanco di sentirmi responsabile. Mio padre non avrebbe sprecato una sola ora della sua vita a scrivere di Galilee e dei Geary. E avrebbe trovato ridicola l’idea che qualcuno potesse trascorrere un giorno dopo l’altro a fare una cosa simile.