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Tre

Rachel socchiuse appena le palpebre e controllò l’orologio. Erano da poco passate le sei ed era trascorsa solo un’ora da quando aveva chiuso il diario ed era andata a letto. Le faceva male la testa e aveva un sapore sgradevole in bocca. Considerò l’idea di alzarsi per prendere un’aspirina, ma non se la sentiva di muoversi.

Mentre richiudeva gli occhi, un rumore che proveniva dal piano di sotto la fece trasalire. C’era qualcuno nell’appartamento. Rachel trattenne il fiato e sollevò appena la testa dal cuscino per sentire meglio. C’era un altro suono, adesso; era una voce, la voce di un uomo. Mitchell? Se era lui, perché diavolo si era presentato lì a quell’ora e con chi diavolo stava parlando? Rimase ad ascoltare. Riconobbe la cadenza della sua voce ma non riuscì a dare un senso a ciò che stava dicendo. Sì, era proprio Mitchell, quel bastardo! Era entrato come se fosse ancora stato un suo diritto andare e venire come gli pareva.

Ci fu una breve pausa, poi lui parlò di nuovo. Era al telefono con qualcuno, e a giudicare dalla velocità con cui parlava, era molto eccitato.

Rachel era curiosa quasi quanto arrabbiata. Si alzò, si infilò rapidamente le mutandine e una felpa e andò alla porta.

Da lì riusciva a sentirlo più chiaramente. Stava parlando con Garrison. Anche se Rachel non lo avesse sentito chiamare per nome suo fratello, lo avrebbe capito dal tono di voce che stava usando: quell’insieme di rispetto e familiarità che riservava solo a Garrison.

“Vengo subito da te…” stava dicendo Mitchell. “Lasciami bere un caffè e…”

Rachel aprì la porta e uscì sul pianerottolo. Non poteva averla vista da dove si trovava, ma evidentemente l’aveva sentita arrivare, perché interruppe bruscamente la conversazione con Garrison. “Ci vediamo tra un’ora”, disse, prima di riagganciare.

Rachel si fermò in cima alle scale.

“Mitchell?”

Lui comparve, un sorriso smagliante che contrastava con il suo colorito grigiastro e i suoi occhi arrossati.

“Mi sembrava di averti sentita. Non volevo svegliarti, così.”

“Cosa diavolo ci fai qui?”

“Sono solo passato a salutarti”, rispose lui senza smettere di sorridere. “Non hai una bella cera. Sei sicura di sentirti bene?”

Rachel cominciò a scendere le scale. “Sono le sei del mattino, Mitchell.”

“C’è un sacco di influenza in giro, sai? Forse dovresti…”

“Mi stai ascoltando?”

“Non avercela con me, piccola”, disse lui, e il suo sorriso finalmente scomparve. “Non devi per forza gridarmi dietro ogni volta che ci vediamo.”

“Non sto gridando”, disse Rachel con calma. “Ti sto solo dicendo che non ti voglio nel mio appartamento.”

Rachel era quasi arrivata in fondo alla scala. Lui fece un passo indietro, sollevando le mani in segno di resa. “Me ne vado”, disse, si voltò e si diresse verso il tavolo. “Avrei dovuto immaginare che lo avrebbe dato a te”, continuò. Stava parlando del diario. Era sul tavolo dove lo aveva lasciato Rachel. “Garrison mi aveva detto che eravate tutte puttane, ma io non ho voluto credergli. Non la mia Rachel. Non la mia dolce, innocente Rachel.” Allungò una mano verso il diario.

“Non toccarlo”, gli intimò lei.

“Faccio il cazzo che voglio”, ribatté Mitchell. Afferrò il diario e si voltò a guardare Rachel. “Ti ho dato una possibilità, ti ho avvertita al galà: non ficcare il naso in cose che non capisci, perché potresti non avere più nessuno a proteggerti. Non ti ho detto così?”

“Non è tuo, Mitch”, disse lei, facendo del suo meglio per restare calma. “Rimettilo dove l’hai preso e vattene.”

“Altrimenti? Eh? Cosa vorresti fare? Sei da sola, adesso.” Poi i suoi modi si ammorbidirono all’improvviso, come se la vulnerabilità di Rachel lo preoccupasse sinceramente. “Perché non mi hai detto che ti aveva dato il diario?”

“Non me l’ha dato Margie. L’ho trovato.”

“Lo hai trovato?” La dolcezza svanì in fretta com’era comparsa. “Sei andata a frugare in casa di Garrison?”

“Sì.”

Lui scosse la testa, sbalordito. “Sei incredibile. Proprio non capisci in che razza di guai ti stai andando a cacciare?”

“Comincio ad averne una vaga idea.”

“E pensavi che il tuo Galilee sarebbe venuto a salvarti se le cose si fossero messe male?”

“No”, rispose Rachel, avvicinandosi a lui lentamente. “So che questo non accadrà mai. Posso contare solo sulle mie forze. Non ho paura di te. So come funziona la tua mente.”

“Non più, ormai”, disse Mitchell. L’espressione dei suoi occhi iniettati di sangue sembrava dargli ragione; c’era qualcosa in lui che Rachel non aveva mai visto, qualcosa di instabile. “Sai cosa dovresti fare, piccola? Dovresti tornartene a Dansky e ringraziare Dio di essere ancora viva. Parlo sul serio. Vattene e non voltarti indietro…”

La sera del galà, le sue minacce le erano sembrate inconsistenti; ora erano molto più reali. Cominciava ad avere paura. La tristezza, la confusione e la mancanza di sonno l’avevano resa debole; se Mitchell avesse deciso di farle del male ora, non sarebbe riuscita a difendersi.

“Forse hai ragione, sai”, gli disse, facendo del suo meglio per nascondere il disagio. “Dovrei tornare a casa.”

Mitchell sembrò felice di essere riuscito a impressionarla. “Adesso sì che cominci a ragionare!”

“Non mi ero resa conto…”

“No, infatti. E come avresti potuto?”

“… che le cose sono molto più serie…”

“Di quanto avessi immaginato. Io ho provato a metterti in guardia.”

“Sì. È vero. E io non ero ancora pronta a darti ascolto.”

“Ma adesso capisci…”

Lei annuì e, sperando che il tono della sua voce fosse abbastanza convincente, disse: “Sì, adesso capisco. Tu avevi ragione e io avevo torto”.

E quell’ultima affermazione gli piacque molto. Il suo sorriso si allargò a dismisura. “Sai essere così dolce quando vuoi, Rachel”, le disse. Senza alcun preavviso le si avvicinò e le posò la mano libera su una guancia. Rachel sentì il suo odore di colonia stantia e sudore vecchio. “Se avessi il tempo…” continuò Mitchell, “ti porterei di sopra per ricordarti cosa ti stai perdendo.”

Lei avrebbe voluto dirgli di andare a farsi fottere, ma sapeva che avrebbe solo peggiorato la situazione. Quindi rimase in silenzio e gli permise di posarle un bacio asciutto sulle labbra, con quell’atteggiamento possessivo che un tempo l’aveva fatta sentire una vera principessa. Ma lui non era ancora soddisfatto. La sua mano le abbandonò il viso e scese a sfiorarle i seni. “Di’ qualcosa”, mormorò.

“Che cosa vuoi che dica?”

“Lo sai”, disse lui.

“Vuoi che ti chieda di portarmi di sopra?”

Lui sogghignò. “Potrebbe essere carino.”

Rachel giurò a se stessa che prima o poi gliela avrebbe fatta pagare. Lo avrebbe messo in ginocchio. Ma fino ad allora: “Be’, allora ti va?”

“Mi va cosa?”

“Di portarmi di sopra…”

“E?”

“… e scoparmi?

“Oh, piccola, pensavo che non me l’avresti mai chiesto.” La sua mano scese ancora, dal seno all’inguine di Rachel. Le fece scivolare le dita sotto l’elastico delle mutandine. “Non sei bagnata, piccola”, disse. Si spinse appena dentro di lei. “Sembri una fottutissima tomba.” Ritrasse la mano come se qualcosa lo avesse punto. “Scusami, piccola. Devo andare.”

Si voltò e si diresse verso la porta. In quel momento, Rachel avrebbe voluto soltanto seguirlo e urlargli che razza di inutile pezzo di merda fosse. Ma riuscì a resistere alla tentazione. Dopotutto, Mitchell se ne stava andando e a Rachel non importava altro.