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Sono rimasto ad aspettare senza nemmeno tamponarmi il naso che, dopo qualche minuto, ha smesso di sanguinare. Quanto al mio assalitore, dovunque fosse, sembrava convinto della mia innocenza al punto da non aggredirmi più.

E poi è accaduta la cosa più strana di tutte. Senza muovere le labbra, Cesaria mi ha parlato.

Maddox, ha detto, cosa ci fai qui?

Quella domanda non sembrava un rimprovero. La sua voce aveva una dolce musicalità. Sembrava quasi sognante, come se stesse parlando nel sonno.

“Ho pensato — in effetti Zabrina ha pensato — che ti fosse successo qualcosa”, ho detto.

E così, ha risposto Cesaria.

“Stai male? Abbiamo persino pensato che stessi morendo.”

Non sto morendo. Sto solo viaggiando.

“Viaggiando? E dove?”

C’è qualcuno a cui devo fare visita prima che abbandoni questa vita.

“Cadmus Geary”, ho detto io.

Lei ha mormorato il suo assenso. Naturalmente, hai raccontato anche la sua storia, ha detto.

“In parte.”

Ha vissuto un’esistenza difficile, ha continuato Cesaria, e sta per morire di una morte difficile. Voglio accertarmene personalmente. Ha parlato senza enfasi ma compiangevo chiunque si trovasse vicino a quel vecchio moribondo.

Sei ferito.

“No, è solo…”

Stai sanguinando. Che cosa sta facendo Zelim?

“Non sapevo chi fosse. Ho provato ad aprire le tende per vederti meglio…”

e sei stato colpito.

“Sì.”

E stato Zelim, ha detto Cesaria. Sa che non mi piace la luce. Ma è stato anche troppo zelante. Zelim? Dove sei?

In fondo alla camera ha cominciato a risuonare qualcosa di simile a un ronzio di api e, sotto i miei occhi sgranati, le ombre hanno cominciato ad annodarsi e davanti a me è comparso qualcosa di vagamente umano. Era solo una forma rudimentale; una creatura sottile, androgina, dai grandi occhi scuri.

Chiedi scusa, ha detto Cesaria. Io ho immaginato che si stesse rivolgendo a me e stavo per obbedirle, quando lei mi ha interrotto: Non tu, Maddox. Zelim.

Il servitore ha chinato il capo. “Mi dispiace”, ha detto. “L’errore è stato mio. Avrei dovuto parlarti prima di colpirti.”

Ora potete lasciarmi, tutti e due, ha ordinato lei. Zelim, porta Maddox nello studio del signor ]efferson e aiutalo a rendersi un po’ più presentabile. Sembra uno scolaretto appena uscito da una rissa.

“Vieni con me”, ha detto Zelim, che ormai aveva raggiunto un tale livello di corporeità che la sua nudità mi metteva in qualche modo a disagio, nonostante l’ingenua forma dei suoi genitali.

L’ho seguito fino alla porta e stavo per uscire, quando ho sentito Cesaria chiamarmi di nuovo. Mi sono voltato a guardare. Non era cambiato niente. Lei giaceva esattamente come prima, inerte. Ma dal suo corpo è emersa un’ondata invisibile di amore che mi ha toccato più profondamente di quanto avrebbe mai potuto fare qualunque altra forza visibile. I miei occhi si sono riempiti di lacrime di piacere.

“Grazie, mamma”, ho sussurrato.

Non c’è di che, figliolo, ha replicato lei, adesso va’. A proposito, dov’è Zabrina?

“È rimasta fuori.”

Dille di smetterla di piagnucolare. Se fossi davvero morta, ogni creatura del paese starebbe piangendo e ululando.

Ho sorriso. “Ne sono sicuro”, ho detto.

E dille di essere paziente. Tornerò presto a casa.

Cinque

Lo studio del signor Jefferson, come lo aveva definito Cesaria, era una delle piccole stanze che avevo oltrepassato mentre mi dirigevo in camera da letto. È stato Zelim ad accompagnarmi, ma la sua ritrovata gentilezza non è riuscita a diminuire il mio disagio. La sua voce, così come il suo aspetto, aveva qualcosa di profondamente indefinito. Sembrava che si stesse aggrappando alle antiche vestigia della sua umanità (dico aggrappando anche se forse era proprio il contrario; forse stavo assistendo alle ultime e felici fasi della muta dell’uomo che era stato). Comunque fosse, la vista di Zelim e il suono della sua voce mi turbavano. Non volevo stare in sua compagnia. Gli ho detto che non avevo bisogno del suo aiuto, che mi sarei risistemato da solo una volta sceso al piano di sotto. Ma lui ha ignorato le mie proteste. La sua padrona gli aveva ordinato di rimediare al danno che aveva fatto e Zelim intendeva obbedirle, che io fossi d’accordo o no.

“Posso versarti un bicchiere di brandy?” mi ha chiesto. “So che non sei un grande estimatore del brandy.”

“Come lo sai?”

“Ascolto”, ha risposto lui. Così era vero quello che si diceva, ho pensato. La casa era effettivamente uno strumento per l’ascolto che consegnava alle stanze di Cesaria le notizie che provenivano dal resto dell’Enfant. “Ma questa è una bottiglia che tocchiamo di rado. Questo liquore è molto potente. Farà sparire il dolore.”

“Grazie”, ho detto. “Ne prenderò un po’.”

Zelim ha chinato il capo come se gli avessi fatto un grande favore accettando quell’offerta, e si è ritirato nella stanza accanto, lasciandomi la libertà di aggirarmi nello studio. C’erano molte cose da vedere. A differenza delle altre camere, che erano vuote, questa era piena di mobili. Due poltrone e un tavolino, una scrivania davanti alla finestra, una libreria carica di volumi rilegati in pelle. Sulle pareti c’erano numerose decorazioni. Una mappa rozza dipinta sulla pelle essiccata di un qualche animale sfortunato: il territorio che rappresentava non mi era familiare. Un altro disegno dallo stile manieristico e dalla cornice sobria mostrava Cesaria sdraiata su una chaise longue. Indossava un abito elegante a vita alta ornato di piccoli fiocchi. Una Cesaria insolita, almeno per me. Era così che si era presentata all’alta società parigina? Probabilmente sì. Gli altri quadri rappresentavano paesaggi piccoli e indistinti che ho osservato di sfuggita, la mia attenzione già focalizzata sullo strano oggetto che si trovava sulla scrivania di Jefferson. Sembrava un grande ragno di legno.

“È una macchina copiatrice”, mi ha spiegato Zelim, rientrando nello studio. “Un’invenzione di Jefferson.” Mi ha fatto accomodare alla scrivania. “Provala.” Sul ripiano, era pronta della carta e una penna era già infilata nello strano apparecchio. Ora che ne conoscevo l’uso, non era difficile immaginarne il funzionamento. Ho preso la mia penna e l’ho bagnata nell’inchiostro — e la seconda penna, grazie a un complicato sistema di ingranaggi, si è sollevata automaticamente, si è bagnata nell’inchiostro e ha copiato il mio nome, replicando la mia firma quasi perfettamente.

“Molto ingegnoso”, ho commentato. “Jefferson l’ha mai usata?”

“Ce n’è una a Monticello che usava di continuo”, mi ha spiegato Zelim. “Questa è stata utilizzata solo una volta o due.”

“Ma è stato lui a usarla?” ho domandato. “Voglio dire… Jefferson ha tenuto in mano proprio questa penna?”

“Proprio così. L’ho visto coi miei stessi occhi. Ha scritto una lettera a John Adams, se ricordo bene.”

Non ho potuto reprimere un piccolo brivido di piacere, cosa che potrebbe sembrarvi strana date le mie frequentazioni divine. Dopotutto, Jefferson era stato soltanto un uomo. Ma era forse proprio quella la ragione per cui ho provato quel brivido. Era stato solo un mortale ma aveva osato spingersi verso una visione più grande.

Porgendomi il bicchiere di brandy, Zelim mi ha detto: “Devo scusarmi ancora per la mia violenza. Posso lavarti il sangue dal viso?”