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“Louise Brooks.”

“Sì. La bellissima Louise. All’epoca c’era ancora Kitty, naturalmente. Non ho dovuto sopportare i suoi struggimenti per quell’attrice. Anche se devo ammettere che era davvero splendida.” Si versò una tazza di tè. “Ne vuoi un po’?”

“No, grazie.”

“Cadmus morirà entro ventiquattr’ore”, continuò Loretta senza scomporsi. “Quando se ne sarà andato, ho intenzione di prendere le redini di questa famiglia. È scritto così nel suo testamento.”

“Hai visto il testamento?”

“No Ma lui me l’ha promesso. Quindi, se non ha mentito, sarò in grado di fare un accordo con Garrison e Mitchell.”

“E in caso contrario?”

“In caso contrario?” Prima di rispondere, Loretta bevve un sorso di tè. “Allora, avremo veramente bisogno di Galilee”, sussurrò. “Sia tu sia io.”

Sette

Nella sua stanza al piano di sopra, Cadmus si svegliò. Aveva freddo e sentiva un vuoto in fondo allo stomaco che non era fame. Si voltò verso la debole lampada accesa sul comodino, sperando che quella luce gli liberasse la mente dalle sagome d’ombra che lo avevano accompagnato nel sonno. Non voleva che lo seguissero anche nel mondo reale. Si sarebbero impossessate di lui anche troppo presto.

La porta si aprì. Cadmus sollevò la testa dal cuscino.

“Loretta?”

“No, signore. Sono Jocelyn.”

“Dov’è Loretta? Aveva detto che sarebbe rimasta qui con me.”

“È di sotto, signore, la moglie di Mitchell è venuta a trovarla. Vuole qualcosa da mangiare? Magari una zuppa?”

“Mandami su Rachel.”

“Mi scusi, signore?”

“Mi hai sentito. Mandami su Rachel, e dille di portarmi un bicchiere di brandy. Su, sbrigati.”

Jocelyn obbedì e Cadmus tornò ad appoggiarsi al cuscino. Dio, aveva così freddo! Ma il pensiero di vedere Rachel, di poterla guardare anche solo per qualche istante, lo rendeva felice. Era una ragazza dolce; gli era sempre piaciuta. Senza dubbio, parte della sua innocenza era stata rovinata da Mitchell; aveva perso la fede nella bontà delle cose. Ma era una creatura forte e sarebbe sopravvissuta. Cadmus allungò una mano e aprì il cassetto del comodino per prendere un pacchetto di mentine. Non poteva più masticarle — le sue mascelle erano troppo deboli e la sua bocca era talmente piena di piaghe che sarebbe stata comunque un’agonia — ma voleva essere sicuro di avere un alito relativamente profumato per il suo incontro con Rachel. Non senza difficoltà, riuscì a mettersi una mentina in bocca sulla lingua secca e cominciò a succhiarla come meglio poteva.

In strada qualcuno stava gridando e lui avrebbe voluto essere là fuori; fuori da quel letto gelido, a guardare il cielo. Ancora una volta, una volta soltanto; era chiedere troppo?

Gli era sempre piaciuto passeggiare, con qualsiasi tempo. Mattine di inverni artici e afosi pomeriggi d’agosto; giornate di primavera e sere d’estate, in cui si era sentito come un re e aveva canticchiato, camminando.

Mai più. Mai più la strada, mai più il cielo, mai più una canzone. Solo il silenzio, molto presto; e il giudizio. E per quanto avesse tentato di prepararsi a quel momento, sapeva che non sarebbe bastato.

Le finestre tremarono. Si stava alzando il vento. I vetri furono scossi ancora, e questa volta ondeggiarono anche le tende. Non c’era da meravigliarsi che facesse tanto freddo! Quella stupida puttana dell’infermiera aveva lasciato aperta una delle finestre. Un’altra folata e le tende si gonfiarono come vele. Questa volta, il vento attraversò la stanza, facendo oscillare persino il paralume.

Cadmus cercò di tirarsi su per vedere meglio le tende che si agitavano. Cosa diavolo stava succedendo?

Aveva bisogno degli occhiali; ma mentre si allungava per prenderli dal comodino ingombro di scatole di medicinali, sentì qualcuno che chiamava il suo nome.

Una donna. C’era una donna con lui nella stanza.

“Loretta?”

La voce della donna assunse un timbro più profondo e questa volta non vi furono parole, solo un suono, qualcosa di simile a un ruggito, che scosse il letto.

Cadmus ricominciò a cercare affannosamente gli occhiali ma, prima che riuscisse a trovarli, la lampada venne scagliata dal comodino e andò in frantumi, lasciandolo al buio.

“In nome di Dio, cos’è stato?” esclamò Loretta. Si alzò dal tavolo e chiamò Jocelyn a gran voce, ma Rachel si stava già incamminando lungo il corridoio.

Riecheggiò un grido: un grido stridulo. Ignorando gli ordini di Loretta, Rachel cominciò a salire le scale. Ebbe un momento di déjà-vu; salire due o tre gradini alla volta, di corsa, ascoltando urla terrorizzate che si mescolavano all’ululato del vento. Quella era una scena che aveva già vissuto e per qualche ragione la sua anima ne aveva conservato il ricordo.

Quando fu sul pianerottolo, si voltò e vide Loretta che la seguiva appoggiandosi al corrimano, e Jocelyn in fondo alle scale chiedeva cosa fosse tutto quel baccano.

“È Cadmus, stupida idiota!” rispose Loretta rabbiosamente. “Mi sembrava di averti detto di restare con lui!”

“E l’ho fatto!” si difese Jocelyn. “Mi sono allontanata perché mi aveva chiesto di andare a chiamare Rachel.”

Loretta non fece commenti ma si rivolse a Racheclass="underline"

“Sta’ lontana da quella porta!”

“Perché?” domandò lei.

“Non sono affari tuoi! Torna di sotto.”

La porta stava tremando con violenza e una parte di Rachel avrebbe voluto fare esattamente ciò che Loretta le aveva detto. Forse dopotutto quelli davvero non erano affari suoi — era solo una follia dei Geary, un dolore dei Geary. Ma come poteva ignorare i singhiozzi terrorizzati che provenivano dalla camera da letto? Qualcuno stava spaventando il vecchio e bisognava fare subito qualcosa. Afferrò la maniglia, che sentì vibrare sotto le dita, e provò ad aprire, ma qualcosa sembrava bloccare la porta dall’interno. Rachel cominciò a spingere con tutte le sue forze, ma inutilmente. Poi di colpo la porta si spalancò e lei venne catapultata in avanti, e quello fu il suo ingresso barcollante nella tragedia che si stava consumando.

Otto

La camera di Cadmus era nel caos. Il grande letto era vuoto, le coperte e i cuscini sparpagliati sul pavimento. La stanza era immersa nell’oscurità tranne che per il bagliore intermittente della lampada che era caduta a terra. Il comodino era rovesciato così come le sedie e il piccolo tavolo da toletta. Tutte le attrezzature mediche — l’asta della flebo, il respiratore, le bottigliette di pillole, le confezioni di medicinali — erano in pezzi, schiacciate e disseminate dovunque.

Rachel cercò Cadmus con lo sguardo ma non riuscì a trovarlo. Né riuscì a scorgere alcuna traccia del responsabile di quel disastro, chiunque fosse. Fece qualche passo. La finestra era spalancata e le tende erano sospinte dal vento. Oh Dio! Possibile che Cadmus avesse tentato la fuga e fosse caduto dalla finestra? O forse qualcuno lo aveva spinto?

Mentre attraversava la stanza, pillole e vetri rotti che le scricchiolavano sotto i piedi, Rachel sentì un debole singhiozzo. Si voltò e là, rannicchiato tra le ombre dense in un angolo della stanza, c’era Cadmus. Era nudo e si copriva i genitali con le mani, il volto simile a quello di una scimmia terrorizzata: le labbra arricciate a scoprire i denti, la fronte corrugata. La guardò ma non sembrò riconoscerla.

“Andrà tutto bene”, lo rassicurò.

Lui non disse niente e continuò a fissarla. Mentre gli si avvicinava, Rachel si accorse che le spalle e il petto di Cadmus erano coperti di ferite gonfie e rosse; un fiotto di sangue gli scorreva tra le dita raccogliendosi in una pozza tra le gambe. Rachel era senza parole. Chi mai avrebbe potuto irrompere nella stanza di un moribondo per infliggergli simili torture? Era disumano.