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“Allora aiutami a ritrovarlo”, disse Rachel. Cesaria la fissò con una strana dolcezza. “Lasciami stare con lui”, continuò. “Lascia che mi prenda cura di lui. Lascia che lo ami.”

Come avrei dovuto amarlo io, vuoi dire, replicò Cesaria. Rachel non riuscì a negare quell’accusa. Mentre le si avvicinava, Cesaria continuò: Non conosco molte persone che avrebbero il coraggio di parlarmi come hai fatto tu. Non dopo aver visto tutto quello che è successo stanotte.

“Non ho paura di te”, disse Rachel.

Lo vedo. Ma non credere che il fatto che tu sia una donna possa proteggerti in qualche modo. Se volessi farti del male…

“Ma non vuoi. Se ferissi me, feriresti anche Galilee e questa è l’ultima cosa al mondo che vuoi.”

Tu non sai che cosa mi ha fatto mio figlio. Non hai idea del dolore che ha causato. Avrei ancora un marito, se lui non si fosse avventurato nel mondo…

“Mi dispiace che ti abbia fatta soffrire così”, disse Rachel. “Ma ti assicuro che non è mai riuscito a perdonarselo.”

Lo sguardo di Cesaria era come una luce che risplendeva attraverso il ghiaccio. Ti ha detto questo?

“Sì.”

Allora perché non è tornato a casa e non me l’ha detto? Avrebbe potuto semplicemente tornare a casa e dire che gli dispiaceva.

“Non l’ha fatto perché era certo che non l’avresti perdonato.”

Io lo avrei perdonato. Avrebbe dovuto solo chiedere e io l’avrei perdonato. La luce e il ghiaccio si stavano sciogliendo e le stavano scorrendo lungo le guance. Accidenti a te, donna. Sei riuscita a farmi piangere dopo tutti questi anni. Tirò su col naso. Allora, che cosa mi stai chiedendo di fare?

“Trovalo per me”, rispose Rachel. “Penserò io al resto. Te lo riporterò a casa. Te lo giuro. Se anche dovessi trascinarlo, te lo riporterò a casa.”

Le lacrime di Cesaria continuavano a scorrere sul suo viso, ma lei non si prese la briga di asciugarsele. Rimase lì, il volto nudo com’era stato quello di Galilee quella prima notte sull’isola; un volto del tutto incapace di inganni. La sua infelicità era visibile e così la rabbia che aveva nutrito nei confronti del figlio per tanti anni. Ma anche l’amore che provava per lui; il suo tenero amore in mezzo a tutta quella sofferenza.

Torna all’Isola Giardino e aspettalo lì.

Rachel non osava quasi credere a ciò che aveva appena sentito. “Lo troverai per me, allora?”

Se lui me lo permetterà. Ma fa’ in modo che torni a casa da me, donna, chiaro? E il nostro patto.

“Certo.”

Riportalo all’Enfant. Qualcuno dovrà seppellirmi quando tutto questo sarà finito. E voglio che sia lui a farlo.

2

“Allora siamo in guerra?”

Quella era la domanda che mi aveva posto Luman il giorno in cui mi ero recato alla Casa del Fumo per fare pace con lui. Allora non avevo saputo cosa rispondergli. Ma adesso lo so. Sì, siamo in guerra con i Geary, anche se sarebbe diffìcile dirgli quando la guerra è cominciata veramente.

Forse questo vale per tutte le guerre. La guerra tra gli stati, per esempio, dalla cui fornace i Geary sono emersi ricchi e potenti — quando è cominciata? Nel momento in cui è stato sparato il primo colpo a Fort Sumter? Questa è una scelta conveniente per gli storici: possono indicare con esattezza il giorno, la data e persino l’uomo — un civile di nome Edmund Ruffin — che ha tirato il grilletto. Ma naturalmente quando questo è accaduto, gli ingranaggi della guerra erano in funzione già da molti anni. I rancori alla base del conflitto erano vecchi di generazioni ed erano stati nutriti e mitizzati nei cuori di persone pronte a perdere tutto e a sacrificare persino i loro figli in nome di quell’odio.

Ed è lo stesso per la guerra tra i Geary e i Barbarossa: anche se la sua prima vittima, Margie, è stata sepolta da poco e i coltelli non sono ancora stati affilati, le trame che ci hanno portati a questo punto risalgono a molti, molti anni fa. Ai tempi di Charleston, alla primavera del 1865: quando Charles Holt e Nub Nickelberry sono entrati nello strano boudoir di Galilee nell’East Battery e si sono abbandonati al piacere. Se avessero saputo a cosa stavano dando inizio, si sarebbero comportati diversamente? Penso di no. Stavano vivendo in un momento di fame e disperazione; se qualcuno avesse detto loro, mentre si consolavano con dolci, carne e baci, che le conseguenze delle loro azioni di lì a centoquarant’anni si sarebbero rivelate tragiche, avrebbero risposto: e allora? E chi avrebbe potuto biasimarli? Se fossi stato al loro posto, avrei fatto lo stesso. Nemmeno io avrei potuto vivere preoccupandomi di ciò che l’eco dell’eco dell’eco delle mie azioni avrebbe provocato.

Così non me la sento di incolpare Charles e Nub. Hanno vissuto le loro vite fino in fondo. E ora siamo noi che dobbiamo vivere le nostre vite, e saranno segnate da un periodo di guerra che potrebbe distruggerci tutti. Ho il sospetto che sarà una guerra subdola, almeno all’inizio. Misurata non in base al numero di bare che riempirà ma in base a quello delle strutture che porterà alla rovina. Non parlo solo di strutture fisiche (benché anche quelle, inevitabilmente, crolleranno); parlo degli elaborati edifici di influenza, potere e ambizione che entrambe le nostre famiglie hanno costruito nel corso degli anni. Alla fine del conflitto, non ne rimarrà in piedi nemmeno uno. E non ci saranno vincitori: questa è la mia previsione. I nostri due clan semplicemente si cancelleranno a vicenda.

La mia sola speranza è che la guerra sveli qualche qualità nascosta in qualcuno di noi (non oso sperare in tutti), che smentirà il mio pessimismo. Non fraintendetemi, con questo non voglio dire che la guerra possa nobilitare gli animi; non lo penso affatto. Ma credo che potrebbe spogliarci di alcune delle finzioni che sono il dubbio profitto della pace e ricondurci ai nostri sé più autentici. Alla nostra umanità o alla nostra divinità; o a entrambe.

Così, sono pronto. Sulla mia scrivania ci sono la penna e la pistola. Ho intenzione di restare qui a scrivere finché mi sarà possibile, ma a questo punto non posso più promettervi che finirò questa storia prima di dover posare la penna e armare la mia mano. Quel mio semplicemente tutto ora mi sembra il più remoto dei sogni; una delle finzioni della pace di cui stavo parlando poco fa.

Ma vi prometto questo: che nei prossimi capitoli non giocherò con i vostri affetti, come se avessimo passato insieme una vita intera. Per quanto mi sarà possibile, sarò diretto e farò di tutto per fornirvi gli strumenti per finire questa storia nella vostra mente, se dovessi essere fermato da una pallottola.

E — visto che siamo in argomento — forse questo è il momento adatto per chiedere perdono a coloro che ho trascurato o frainteso in queste pagine. Avete letto il lavoro di un uomo che ha imparato la sua arte parola dopo parola, frase dopo frase; spesso ho inciampato, spesso ho fallito.

Perdonatemi le mie debolezze, e fatelo non perché sono figlio di mio padre, ma perché sono semplicemente umano. Fatelo perché il futuro sia un tempo in cui questa sarà una ragione sufficiente per essere amati.

PARTE OTTAVA

La casa delle donne

Uno

Quando ho scritto l’ultima parte del capitolo precedente, ero di umore malinconico; con il senno di poi posso dire che le mie parole erano premature. Dopotutto, i barbari non sono ancora qui. Non abbiamo sentito nemmeno un’ombra del profumo della loro acqua di colonia. Forse non avrò mai bisogno della pistola che mi ha dato Luman. Non sarebbe un finale appropriato per la mia epica? Dopo centinaia di pagine di attesa, niente. I Geary decidono di non attaccarci; Galilee resta in mare; Rachel lo aspetta sulla spiaggia, inutilmente. Il rumore dei tamburi di guerra si affievolisce e infine scompare.