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“Luman?” ho mormorato, aprendo gli occhi.

Non era Luman; non era nemmeno un tocco umano o qualcosa che somigliasse a un tocco umano. Era una qualche presenza tra le ombre; o forse erano le ombre stesse. Erano sciamate su di me mentre tenevo gli occhi chiusi, e adesso erano così vicine che la loro intimità non era per niente minacciosa ma stranamente tenera. Era come se quelle forme senza senso fossero preoccupate per me, dal modo in cui mi sfioravano il collo, la fronte, le labbra. Sono rimasto assolutamente immobile, trattenendo il fiato, aspettandomi che da un momento all’altro il loro umore cambiasse e le loro attenzioni mutassero in qualcosa di ben più crudele. Ma no; sono rimaste semplicemente ad aspettare, vicino a me.

Sollevato, ho ricominciato a respirare. E in quell’istante ho capito di aver fatto di nuovo inconsapevolmente qualcosa di importante.

Mentre inspiravo, ho sentito l’aria densa e vibrante attorno alla mia testa affrettarsi verso le mie labbra aperte e giù, lungo la mia gola. Non ho avuto scelta, ho dovuto lasciarla entrare. Quando ho capito cosa stava succedendo era già troppo tardi per opporre resistenza. Ero un vaso che veniva riempito. Potevo percepirla sulla lingua, contro le tonsille, nella trachea…

Nel momento in cui l’aria è entrata in me, il dolore al fianco si è affievolito di colpo, e così il pulsare violento nella testa e negli occhi. La paura di una morte solitaria in quel luogo mi ha abbandonato e io sono scivolato, con un solo respiro, dalla disperazione a un piacevole rilassamento.

Che labirinto di manipolazioni conteneva quella stanza! Prima la banalità, poi un colpo e poi questa beatitudine oppiata. Sarei stato stupido, lo sapevo, a credere che la stanza del cielo avesse esaurito il suo repertorio di trucchi. Ma se la stanza era felice di darmi sollievo dal mio dolore, io ero altrettanto felice di accettare ciò che mi offriva. Lo desideravo con tutto me stesso. Ho inghiottito l’aria, bevendola avidamente. E con ogni respiro mi sono sentito sempre più lontano dal mio dolore. E non era soltanto il dolore al fianco e alla testa a diventare in qualche modo remoto; c’era anche una sofferenza ben più antica — un dolore sordo che infestava il terreno morto dei miei arti inferiori — che ora per la prima volta, in un arco di tempo pari a due vite umane, veniva alleviata. Non che il dolore mi venisse tolto; solo non lo riconoscevo più come dolore. Non è necessario che vi dica con quanta gioia l’ho bandito dalla mia mente, singhiozzando la mia gratitudine per la liberazione da quell’agonia che era diventata così familiare da farmi dimenticare quanto profonda fosse la ferita.

E in quel momento i miei occhi — che erano più acuti di quanto fossero mai stati, persino nella mia giovinezza — hanno trovato una nuova stupefacente visione. L’aria che stavo espellendo dai polmoni possedeva una solidità luminosa; fuoriusciva da me piena di particelle dalla delicata lucentezza come se dentro di me fosse stato acceso un fuoco e io stessi espirando frammenti di fiamma. Era forse una rappresentazione del mio dolore? Era forse il modo in cui la stanza — o il mio stesso delirio — dava forma a quella liberazione? Quelle domande sono rimaste a fluttuare nella mia mente per una decina di secondi prima di scomparire. Le particelle stavano per svelarmi la loro vera natura, e questa non aveva niente a che fare con il dolore.

Continuavano a fluire dalla mia bocca a ogni respiro, ma io non stavo osservando quelle che avevo appena esalato. Erano le prime che erano uscite da me a catalizzare la mia attenzione. Stavano seminando la loro lucentezza nelle ombre — scomparivano nel letto nuvoloso attorno a me. Le ho guardate con quello che mi piacerebbe definire un distacco scientifico. In fondo c’era una certa logica in tutto quello che mi stava succedendo; o almeno, così immaginavo. Le ombre erano solo metà dell’equazione: erano un luogo di possibilità, niente più di questo; il fango fertile della stanza in attesa di una scintilla galvanizzante che portasse alla luce… cosa?

Quella era la domanda. Che cosa voleva mostrarmi quel matrimonio tra fuoco e ombra?

Non ho dovuto aspettare più di una manciata di secondi per scoprire la risposta. Non appena le prime particelle si sono adagiate, le ombre hanno abbandonato la loro incertezza e sono sbocciate.

I limiti della stanza del lucernario non esistevano più. Quando sono arrivate le visioni — e, oh, come sono arrivate! - sono state immense.

Prima, dalle ombre, un paesaggio. Un paesaggio assolutamente primitivo: roccia e fuoco e una massa fluente di magma. Sembrava l’inizio del mondo; rosso e nero. Ho avuto solo un istante per dare un senso a quella scena. E l’istante successivo sono stato assediato da altre immagini, lo spettacolo davanti a me che si trasformava a ogni battito del mio cuore. Qualcosa stava sorgendo dal fuoco, oro e verde, levandosi in un cielo pieno di fumo. E mentre si alzava, i boccioli che portava sono diventali frutti e sono caduti sul terreno di lava. Non ho avuto nemmeno il tempo di guardarli consumarsi. Un movimento nel fumo alla mia destra ha attratto la mia attenzione. Un animale di qualche genere — dai fianchi pallidi, segnati da cicatrici — è entrato al galoppo nel mio campo visivo. Ho sentito la violenza dei suoi zoccoli nelle mie viscere. E prima che scomparisse ne è comparso un altro, e un altro ancora, e poi una mandria di quelle creature — non cavalli ma qualcosa di simile. Ero stato io a generarle? Le avevo forse esalate con il mio dolore; e anche il fuoco e le rocce e l’albero che sorgeva dalle rocce? Era tutta una mia invenzione o si trattava forse di un qualche ricordo remoto che gli incanti della stanza avevano reso visibile?

Mentre davo forma a quei pensieri, la mandria pallida ha cambiato direzione puntando verso di me. Istintivamente mi sono coperto la testa per proteggermi. Ma nonostante tutta la furia dei loro zoccoli, il loro passaggio non mi ha procurato più danni di quanti me ne avrebbe causati una leggera brezza; sono passati sopra di me e si sono allontanati.

Ho alzato lo sguardo. Nei pochi secondi in cui avevo distolto gli occhi, il terreno aveva dato vita a una nascita prodigiosa. Da ogni parte c’erano nuovi spettacoli da ammirare. Vicino a me, nell’aria stessa da cui veniva scolpito, si contorceva un serpente dai colori sgargianti come quelli di un fiore. Prima ancora che fosse del tutto creato, è stato afferrato da un’altra creatura e i miei occhi hanno incontrato una forma vagamente umana ma sottile e alata. Il serpente è scomparso in un secondo, inghiottito da questa nuova creatura che infine ha spostato lo sguardo su di me come se si stesse chiedendo se anch’io fossi commestibile. Chiaramente le sono apparso come una misera preda. Sbattendo le ali gigantesche, la creatura si è levata come un sipario per rivelare un altro dramma, ancora più strano.

L’albero che avevo visto nascere aveva sparso i suoi semi in ogni direzione. Nel giro di pochi istanti era sbocciata una foresta, dai rami e dal fogliame scuri come nubi temporalesche. E a saettare tra gli alberi c’erano creature di ogni genere, che salivano per nidificare e cadevano per decomporsi. Vicino a me è comparsa un’antilope pezzata che defecava per il terrore. Ho cercato la ragione della sua paura e là, a pochi metri dall’antilope, ho visto qualcosa che si muoveva tra gli alberi. Sono riuscito a scorgere solo il luccichio di un occhio o di una zanna prima che la creatura balzasse fuori dal suo nascondiglio, piombando sulla sua preda. Era una tigre, grande come quattro o cinque uomini. L’antilope ha cercato di darsi alla fuga ma il predatore non le ha lasciato scampo. Gli artigli della tigre sono affondati nei fianchi setosi dell’antilope, e la morte della preda non è stata né rapida né pietosa. L’antilope si è agitata selvaggiamente, anche se il suo corpo era già lacerato e la tigre le stava aprendo la gola sottile. Non ho distolto lo sguardo. Ho continuato a osservare la scena finché l’antilope non è stata ridotta a semplice carne fumante e la tigre si è accovacciata per cibarsene. Solo allora ho permesso ai miei occhi di allontanarsi in cerca di nuove distrazioni.