Voleva vedere il suo viso; voleva sapere che genere di bellezza lo stava accompagnando. Ma quando cercò di spostare lo sguardo in direzione della voce, non ci riuscì. Non poteva fare altro che fluttuare e ascoltare, lasciandosi inondare e accarezzare dalla dolcezza di quella voce.
Alla fine, si fermò e rimase a galleggiare a mezz’aria. Poi si posò dolcemente sul terreno. Solo allora, mentre giaceva nell’erba così alta da oscurare in parte il suo campo visivo, si rese conto di essere un bambino.
Non aveva viaggiato da solo ma era stato portato in braccio da una donna. Ora riusciva a vederla: era davanti a lui, gli dava le spalle e stava guardando una casa, una magnifica casa che sorgeva in lontananza.
Lui cominciò a piangere. Voleva che la donna lo prendesse di nuovo tra le braccia.
Ma lei continuava a scrutare la casa e, anche se non riusciva a vederle il viso, qualcosa nel modo in cui teneva le braccia inerti lungo i fianchi lo convinse che tutta la felicità che aveva percepito nella sua voce ora l’aveva abbandonata. La donna voleva essere là, in quella splendida costruzione dalle colonne bianche, ma le era proibito.
Continuò a piangere, facendo del suo meglio per attrarre l’attenzione della donna che, alla fine, si voltò e lo guardò.
Era sua madre.
Rimase turbato nel vederla; quasi scioccato. Ma a sconvolgerlo non era il suo volto pallido e rigato di lacrime (lui amava vedere le donne ridotte in quello stato) ma la sua presenza in quel luogo magico. Lei apparteneva a un’esistenza più banale i cui pochi incanti potevano essere comprati e venduti come qualsiasi altra merce.
Sua madre si inginocchiò accanto a lui, come se volesse prenderlo tra le braccia. Le sue lacrime gli caddero sul viso. Infine lei pronunciò un’unica parola:
“Addio”.
Poi — senza baciarlo, senza nemmeno sfiorarlo — si rialzò e si allontanò, lasciandolo solo, nell’erba alta.
Lui ricominciò a piangere con voce stridula e patetica. Ma adesso le sue labbra potevano formare anche parole…
“Non lasciarmi!” singhiozzò. “Mamma! Mamma! Non lasciarmi!”
Fu il suo stesso grido a svegliarlo. Si alzò a sedere, il cuore che gli batteva furiosamente nel petto. Attese l’inevitabile ritirata delle immagini che la sua mente aveva evocato, ma non avvenne niente del genere. Anche con gli occhi aperti, anche osservando i molti dettagli concreti della sua camera da letto, il sogno non voleva abbandonarlo.
Forse questo faceva parte della sua trasfigurazione: la sua mente stava rivisitando vecchie angosce, permettendogli di liberarsene una volta per tutte. Non era un’esperienza particolarmente piacevole, ma qualsiasi mutamento — soprattutto uno potente come quello che stava vivendo lui — portava con sé una certa quantità di disagio.
Si alzò dal letto e andò alla finestra. Mentre apriva le tende, fu assalito da un sospetto terribile. Si infilò la vestaglia, uscì in corridoio e si dkesse verso lo studio dove aveva lasciato il diario di Holt. Aveva cominciato a leggerlo subito, non appena Mitchell glielo aveva portato, ma ben presto gli eventi gli avevano impedito di continuare. Si mise a sfogliare le pagine consumate. Saltò i passaggi sulla battaglia di Bentonville e la parte in cui Holt ritornava nella sua casa; scorse rapidamente gli avvenimenti dell’East Battery e la partenza di Holt e Nickelberry da Charleston.
I disertori si erano messi in viaggio verso nord in compagnia di Galilee, diretti al territorio dei Barbarossa. C’erano quattro o cinque pagine dedicate alla precisa metodologia dell’ingresso: molti piccoli diagrammi simili a stemmi, e paragrafi che parlavano diffusamente dei misteri dell’Enfant — misteri che, se non fossero stati risolti, si sarebbero dimostrati fatali per chiunque avesse cercato di introdursi nella residenza dei Barbarossa. Lesse con grande attenzione il brano in cui venivano descritte le soluzioni a quegli enigmi, poi passò oltre, in cerca di una descrizione della casa.
E là, a poche pagine dalla fine del diario, trovò ciò che aveva temuto di trovare.
Non ho mai visto una casa simile a quella che si è presentata ai nostri occhi quando siamo emersi dagli alberi, né ho mai avvertito così intensamente la sensazione di trovarmi in presenza di cose invisibili, di forze che avrebbero potuto farci patire pene indicibili se non fossimo stati due buoni samaritani che riportavano un figliol prodigo alla sua terra natia. Queste sono due storie evangeliche in una, ma penso che sia più che appropriato — sono infatti convinto che in questo luogo siano radunati abbastanza misteri da riempire una dozzina di Bibbie.
Ed ecco la casa. Era dipinta di bianco e aveva una façade classica, simile a quelle che si possono ammirare nelle grandi residenze delle piantagioni del Sud. Ma sopra quelle forme familiari si ergeva una cupola immensa e maestosa, che splendeva candida alla luce del sole…
Garrison richiuse il diario. Non aveva bisogno di leggere altro. La casa del suo sogno era la stessa che aveva descritto Holt: il grande palazzo dei Barbarossa. Ben presto l’avrebbe visto con i suoi occhi.
Possibile che il sogno significasse che era già stato là? E se così non era stato, come aveva potuto immaginare con tanta precisione quel luogo?
Misteri su misteri. Prima la morte del vecchio e la distruzione che l’aveva accompagnata. Poi la sua trasfigurazione: la potenza che aveva visto riflessa nello specchio. E adesso questo enigma: il sogno in cui sua madre lo abbandonava davanti alla casa dei Barbarossa.
Garrison si era sempre fidato del suo intelletto: negli affari e nella gestione degli esseri umani non era mai il caso di essere troppo emotivi. Ma un intelletto saggio conosceva i propri limiti. Non cercava di spingersi al di fuori della giurisdizione del potere analitico. Restava in silenzio e permetteva alla mente di trovare altri modi per comprendere ciò che la tormentava.
E ora aveva raggiunto quel confine, il punto in cui la razionalità si faceva da parte. Per inoltrarsi in un luogo di trasformazione e furia e abbandono come quello che si estendeva davanti a lui, avrebbe dovuto fidarsi del suo istinto.
Altri avevano intrapreso avventure simili ed erano sopravvissuti per raccontarle. Uno di quei viaggiatori era l’autore del diario che teneva tra le mani: il capitano la cui esistenza era fatalmente legata alle radici dell’albero genealogico dei Geary.
Forse quello era il destino che lo attendeva; forse quel viaggio lo avrebbe portato a fondare una sua dinastia. Quell’idea non lo aveva mai attraversato prima, ma non c’era da stupirsene. Aveva lavorato al servizio dei Geary per tutta la vita; un’occupazione sterile anche nel migliore dei casi. Ora era libero sia dalla sua schiavitù sia dalla sua vecchia pelle. Era tempo di ricreare ogni cosa.
Di trovare grembi, di fare figli. E di prenderli e posarli nella stessa erba su cui lui aveva giaciuto, da dove avrebbero potuto vedere le colonne e la cupola del palazzo che i Barbarossa avevano sognato e costruito ma di cui lui si sarebbe appropriato per ospitare i suoi figli e le sue figlie.
Sette
Questa volta Rachel non arrivò sull’isola come la viziata consorte di Mitchell Geary. Jimmy Hornbeck non era all’aeroporto ad aspettarla, pronto a soddisfare ogni suo capriccio. Noleggiò un’auto all’aeroporto, caricò le valigie e con l’aiuto di una cartina stradale si diresse ad Anahola. Il cielo era coperto, le nubi gonfie di pioggia che avevano ammantato le vette del Monte Waialeale ora erano scese su tutta l’isola. Faceva ancora caldo, un caldo umido. Rachel decise di non chiudere i finestrini e di non accendere l’aria condizionata. Voleva sentire la fragranza dei fiori e il profumo pungente del mare. Voleva ricordare come si era sentita quando era stata lì la prima volta.