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“Alcuni sono vecchi soci d’affari di Cadmus. Non sia così nervoso, Carl. Le assicuro che nessuno di loro si presenterà vestito da Coniglio Pasquale. Sanno come ci si comporta ai funerali.”

Vi fu qualche risatina nervosa e la riunione continuò. Ma l’attenzione di Garrison rimase fissa su Loretta. Sembrava diversa quella sera. Non era solo l’abito nero che indossava, anche se quel colore accentuava la precisione del suo trucco. C’era un luccichio nei suoi occhi che non gli piaceva. Come mai aveva quell’aria così soddisfatta? Fu solo quando Linville, verso la fine dell’incontro, accennò alla presenza di Mitchell al funerale e chiese dove si trovasse che Garrison si rese conto della ragione dell’aria compiaciuta di Loretta: era stata lei a mandarlo sull’isola.

Stava rispolverando i suoi vecchi trucchi per manipolare Mitch, per ammorbidirlo, per portarlo dalla sua parte. Non c’era da stupirsi che suo fratello gli fosse sembrato così sicuro di sé al telefono quando, poche ore prima, si era comportato come un idiota singhiozzante. Era stata lei a incoraggiarlo; probabilmente lo aveva convinto che, se avesse seguito i suoi consigli, sarebbe riuscito a riconquistare la sua commessa. E ovviamente Mitchell ci era cascato. Loretta era sempre riuscita a manovrarlo come un burattino.

Alla fine della riunione, mentre Carl Linville prometteva che entro il mattino seguente avrebbe completato l’itinerario per il funerale, Loretta si avvicinò a Garrison e gli disse:

“Dopo la cerimonia, vorrei che andassi nella casa di Washington a vedere se c’è qualcosa che vorresti tenere. Ho deciso di venderla.”

“Che idea gentile da parte tua”, rispose lui.

“So che ci sono alcuni mobili che tua madre aveva portato da Vienna.”

“Non ci sono particolarmente affezionato, sai che non sono un sentimentale”, disse Garrison.

“Non c’è niente di male in un po’ di sentimento di tanto in tanto”, replicò Loretta.

“Non ne ho notato molto in te.”

“Vivo il mio lutto in privato.”

“Be’, quando il vecchio sarà sottoterra, avrai tutta la privacy che vuoi”, disse Garrison. “Mi sorprende che tu voglia vendere la casa di Washington. Dove andrai ad abitare?”

“Non ho intenzione di uscire di scena silenziosamente, se è questo che speri”, rispose Loretta. “Ho molte responsabilità.”

“Non ci pensare, ti meriti un po’ di riposo.”

“Non ho bisogno di riposo”, replicò lei in tono piatto. “Anzi, ho deciso di interessarmi di più degli affari di famiglia. Negli ultimi mesi, ho trascurato molti dettagli.” Lui le rivolse un sorriso freddo. “Buonanotte, Garrison.” Lo baciò su una guancia. “Dovresti dormire un po’, comunque”, aggiunse allontanandosi. “Hai un aspetto anche peggiore di quello che aveva Mitchell.”

Fu solo quando arrivò a casa e si sedette nella poltrona dove ora preferiva dormire (il letto, per qualche ragione, lo metteva a disagio) che Garrison ripensò alla casa di Washington e al suggerimento di Loretta. Come le aveva detto, non aveva alcun desiderio di prendere niente da quella casa, tuttavia se davvero la casa sarebbe stata venduta con tutto quello che conteneva, avrebbe dovuto trovare un momento libero per andare a dare un’occhiata. Da bambino era stato felice, lì: i giorni più caldi dell’estate passati a giocare sotto i sicomori dietro la casa, dove le ombre erano fresche e blu; le feste di Natale, quando quel luogo era stato caldo e accogliente e lui, anche se solo per poche ore, si era sentito davvero parte della famiglia. Quella sensazione di appartenenza non era mai durata molto a lungo; in fondo, si era sempre sentito un estraneo e anni di analisi non erano riusciti a svelargli il perché.

Che assoluto spreco di tempo: passare ora dopo ora con quegli uomini dalla mente stantia, in cerca di un indizio che gli spiegasse perché si sentiva così a disagio anche con se stesso. Naturalmente adesso sapeva; adesso che riusciva a vedersi chiaramente. Non era come gli altri, era una creatura completamente diversa.

Quel pensiero lo mise di umore sognante; scivolò nel sonno seduto in poltrona e non si mosse finché le prime sirene del nuovo giorno non lo svegliarono.

Quattordici

1

La tempesta durò tutta la notte e all’ultimo momento cambiò direzione e si abbatté sulla costa sudorientale dell’isola. La città più colpita fu Po’ipu, ma molte altre comunità minori di quella zona vennero investite dalla tempesta. Vi furono alcuni allagamenti, e un ponte venne spazzato via; così come alcune capanne. Quando il vento spostò le nubi verso l’interno dell’isola — dove rimasero ad ammantare le montagne per il resto della notte, diradandosi gradualmente — c’erano già state altre tre vittime da aggiungere al numero di coloro che erano morti in mare.

Rachel andò a letto all’una passata; rimase in piedi ad ascoltare il ruggito del vento che riecheggiava tra gli alberi attorno alla casa, le palme piegate al punto che le loro fronde sbattevano sul tetto della casa come dita dalle unghie lunghe. Le erano sempre piaciuti i temporali, fin da bambina. Anche quella tempesta l’affascinava, con il suo frastuono, la sua violenza, la sua spettacolarità. Quando venne a mancare la corrente, rimase seduta alla luce di un paio di candele, rimpiangendo di non avere più il diario di Holt. Quello sarebbe stato il momento perfetto nel luogo perfetto per leggere l’ultima parte del libro. Ma sapeva che ora era in possesso di Mitchell o di Garrison e le sue chance di riuscire a recuperarlo erano quasi inesistenti. Non aveva importanza, comunque. Sarebbe stato Galilee a raccontarle ciò che era successo a Holt. Forse avrebbe trasformato quegli eventi in una storia per lei; l’avrebbe tenuta tra le braccia e le avrebbe parlato delle imprese di Nickelberry e del capitano. Non ci sarebbe stato un lieto fine, Rachel ne era certa, ma in quel momento, mentre ascoltava la pioggia che batteva contro le finestre, non le importava. Non era una notte adatta a un lieto fine: era una notte in cui l’oscurità avrebbe avuto la meglio. Domani, una volta che le nubi si fossero diradate e il sole fosse sorto, sarebbe stata felice di ascoltare racconti di salvataggi miracolosi e preghiere esaudite. Ma adesso, nel cuore fragoroso della notte, voleva che Galilee le parlasse degli ultimi istanti del capitano Holt e del bambino fantasma che sicuramente era andato a chiamarlo sul letto di morte, proprio come aveva fatto con il cavallo, per scortarlo fino all’aldilà.

Le candele tremolarono e Rachel rabbrividì. Era riuscita a spaventarsi da sola. Prese una candela e si recò in cucina per prepararsi un tè. Stava per riempire il bollitore quando notò un movimento veloce tra le ombre del soffitto sopra di lei e si accorse che si trattava di un grande geco, il più grande che avesse mai visto. La creatura sembrò accorgersi del suo sguardo perché si fermò e rimase immobile finché lei non smise di fissarlo. Solo allora sentì che ricominciava a muoversi tra le travi di legno del soffitto. Quando alzò di nuovo lo sguardo, il geco era scomparso.

Ormai le era passata la voglia di bere il tè, così posò il bollitore sul fornello, riprese la candela e andò a letto. Si tolse solo i sandali e i jeans quindi si infilò sotto le coperte. Si addormentò dopo pochi minuti, cullata dal suono della pioggia.

2

Fu svegliata da qualcuno che bussava alla porta della camera con impazienza. Poi un voce: “Rachel? Sei lì?”

Lei si mise a sedere sul letto, ancora immersa nel sogno che stava facendo: qualcosa che aveva che vedere con Boston e dei diamanti sepolti nella neve a Newbury Street. “Chi è?”

“Sono Niolopua. Ho bussato alla porta d’ingresso ma non hai risposto, così sono entrato.”

“È successo qualcosa?” Guardò fuori dalla finestra. Era giorno; il cielo era di un blu brillante.