“Devi alzarti”, disse Niolopua, in tono preoccupato. “C’è un relitto. Penso che si tratti della sua barca.”
Rachel si alzò e attraversò la stanza, senza ancora capire del tutto che cosa stesse accadendo. Ecco Niolopua, sporco di fango rossastro. “È la Samarcanda”, le disse. “La barca di Galilee. E stata trasportata sulla spiaggia dalle onde.” Lei tornò a guardare verso la finestra. “Non qui”, continuò Niolopua. “Dall’altra parte dell’isola. Sulla costa di Napali.”
“Sei sicuro che si tratti proprio della Samarcanda?”
Niolopua annuì. “Sicurissimo.”
Il cuore prese a batterle più forte nel petto.
“E che cosa ne è stato di Galilee?”
“Non c’è traccia di lui”, rispose Niolopua. “Almeno non ce n’era fino a un’ora fa.”
“Mi vesto e sono subito da te”, disse Rachel.
“Hai degli stivali?” chiese Niolopua.
“No, perché?”
“Perché è un posto difficile da raggiungere. Bisogna arrampicarsi.”
“Mi arrampicherò”, disse lei, “stivali o non stivali.”
Gli effetti della tempesta erano visibili ovunque. L’autostrada era ancora in parte allagata e ingombra di detriti di ogni genere: rami, assi, polli annegali e persino piccoli alberi. Fortunatamente, non c’era molto traffico a quell’ora — erano solo le sette — e Niolopua era un abile guidatore.
Durante il tragitto, Niolopua spiegò a Rachel dove si stavano dirigendo. La costa di Napali era la parte più bella e pericolosa dell’isola. Le scogliere si ergevano ripide dall’oceano, e le spiagge e le grotte si potevano raggiungere con facilità solo dal mare. Rachel aveva visto alcune immagini di quella costa su una brochure che aveva sfogliato durante il breve volo da Honolulu. Era una delle mete turistiche più popolari e venivano organizzate numerose escursioni in elicottero che permettevano di ammirare quello straordinario panorama: cascate spettacolari, rupi coperte di vegetazione e valli lussureggianti. Secondo una leggenda locale, alcune di quelle valli erano così inaccessibili che fino a poco tempo prima erano state abitate da piccole comunità completamente isolate dal resto del mondo.
“Raggiungeremo la spiaggia costeggiando le scogliere”, le spiegò Niolopua. “È a circa un chilometro dalla fine della strada.”
“Come hai fatto a trovare il relitto?”
“Ero là durante la tempesta. Non so perché ci sono andato. Sapevo soltanto che dovevo essere là.” Si voltò a guardare Rachel. “Forse era lui che mi chiamava.”
Lei si portò una mano al viso; di colpo, ebbe voglia di piangere. Il pensiero di Galilee là fuori nelle acque scure…
“Lo senti ancora?”
Niolopua scosse la testa, le lacrime che gli rigavano le guance. “Ma questo non significa niente”, disse senza molta convinzione. “Conosce il mare. Nessuno lo conosce meglio di lui. Dopo tutti questi anni…”
“Ma se la barca è affondata…”
“Allora dobbiamo sperare che la marea lo abbia portato a riva.”
Rachel ripensò ai racconti sul dio-squalo che talvolta riaccompagnava a terra i naufraghi e talvolta, per ragioni incomprensibili, li divorava. Galilee aveva gettato in mare la loro cena, quella notte, un’offerta per la divinità, e Rachel all’epoca aveva trovato quel gesto dolcemente assurdo. Ma adesso era felice che lo avesse fatto. Nel mondo in cui lei era stata cresciuta, non c’era spazio per dèi-squali né per rituali come gettare del cibo nell’acqua; ma ultimamente aveva cominciato a capire quanto ristretta fosse stata quella visione della vita. Là fuori c’erano forze che andavano al di là della sua comprensione e della sua educazione, forze che non potevano essere controllate da semplici comandamenti. Cose che vivevano vite segrete e selvagge, libere e senza limiti. Galilee le conosceva perché in una qualche misura era come loro.
Quell’idea la terrorizzava e la confortava allo stesso tempo. Se Galilee avesse sentito troppo intensamente il richiamo di quella vita come avrebbe potuto non seguirlo? In quel caso non lo avrebbe trovato mai più. Sarebbe scomparso in luoghi che lei non avrebbe mai potuto raggiungere. Se invece le sue dichiarazioni d’amore erano state sincere, forse gli stessi poteri che avrebbero potuto reclamarlo sarebbero diventali suoi alleali e l’offerta che Galilee aveva fatto al dio-squalo avrebbe fatto parte della storia che le avrebbe restituito l’uomo che amava.
3
Le tracce del passaggio della tempesta diventarono molto più evidenti una volta che ebbero superato Po’ipu; la strada era quasi inagibile in molti punti dove la violenza della pioggia aveva trascinato grandi rocce. Una volta imboccata la strada che conduceva alla spiaggia e che costeggiava la base dei promontori, la situazione peggiorò ulteriormente. La strada ormai era in gran parte ridotta a un sentiero dissestato di fango rosso. Anche guidando cautamente, Niolopua diverse volte perse per qualche istante il controllo del veicolo quando i pneumatici scivolosi non riuscirono a mantenere la presa sul terreno.
Sulla sinistra, oltre un gruppo di rocce nere, c’era la spiaggia: e là, più che in qualunque altro luogo avessero incontrato durante il tragitto, c’erano i segni più evidenti della violenza della tempesta. La spiaggia era completamente disseminata di detriti e i flutti avevano assunto il colore rossastro della fanghiglia. Era uno scenario quasi onirico — il cielo plumbeo, il mare scarlatto, la sabbia chiara coperta di frammenti di legno scuri e gonfi. In altre circostanze, Rachel avrebbe anche potuto trovarlo uno spettacolo bellissimo. Ma tutto ciò che vedeva ora erano detriti e acque rosso sangue: niente che potesse incantarla.
“È lì che inizia la salita”, annunciò Niolopua.
Lei distolse lo sguardo dalla spiaggia e lo spostò sulla strada. Il sentiero fangoso si interrompeva qualche metro più avanti, dove la scogliera si protendeva sul mare; una lingua di roccia contro cui le onde si infrangevano ritmicamente.
“La spiaggia è dall’altra parte.”
“Sono pronta”, disse Rachel e scese dall’auto.
L’aria, nonostante il frastuono del mare, era curiosamente immobile vicino alle rocce. Quasi opprimente. Nel giro di un paio di minuti Rachel iniziò a sudare e quando lei e Niolopua cominciarono ad arrampicarsi la testa prese a pulsarle. Niolopua aveva lasciato in macchina i sandali e si stava arrampicando a piedi scalzi, senza badare a Rachel che era nuova a quel genere di attività. Solo quando la salita si faceva particolarmente pericolosa, si girava a lanciarle un’occhiata e una o due volte le offrì la mano per aiutarla ad arrampicarsi su una roccia scivolosa o ripida. Per evitare massi che erano virtualmente invalicabili, la condusse sulla lingua di roccia. L’aria era più fresca lì e di tanto in tanto un’onda ambiziosa si spingeva più in alto delle altre infrangendosi vicino a loro, riempiendo l’aria di spruzzi gelati. Ben presto Rachel si ritrovò bagnata da capo e piedi, i seni così gelidi che le facevano male i capezzoli, le dita delle mani intorpidite. Ma ora riuscivano a vedere la loro destinazione: una spiaggia che sarebbe stata paradisiaca se non fosse stato per i detriti, una lunga curva di sabbia delimitata non solo dalle rocce ma anche dalla valle rigogliosa che digradava dal promontorio. Anche lì la tempesta aveva lasciato il segno: molti alberi erano stati praticamente sradicati dal vento, le fronde fatte a pezzi e sparpagliate ovunque. Ma la vegetazione era troppo ricca e troppo impenetrabile per permettere alla tempesta di causare danni più profondi; sotto le palme abbattute c’erano distese di verde luccicante, screziate di boccioli luminosi.
Non c’era nessuno sulla spiaggia che si allungava per circa mezzo chilometro prima di interrompersi ai piedi di un’altra scogliera, molto più grande di quella che avevano scalato. Da quella distanza, il secondo gruppo di rocce sembrava davvero invalicabile: quella spiaggia era l’ultimo luogo che un essere umano potesse raggiungere a piedi.