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“Perché sei tanto sicuro che sia la Samarcanda?” domandò Rachel a Niolopua che l’aveva raggiunta sulla riva.

L’uomo fissò la sabbia bagnata ai suoi piedi. “È solo una sensazione, ma credo che sia così.”

“Non è possibile che il relitto sia stato portato qui dalle onde e che lui si sia messo in salvo su un’altra spiaggia?”

“Naturalmente”, rispose Niolopua. “Potrebbe aver nuotato lungo la costa. È abbastanza forte da potercela fare.”

“Ma tu non ne sei molto convinto.”

Lui scrollò le spalle. “Il tuo istinto vale quanto il mio quando si tratta di Galilee. Forse anche di più. Gli sei stata molto più vicina di me.”

Lei annuì. Forse in quel momento l’uomo che amava giaceva da qualche parte nell’acqua bassa, troppo esausto per nuotare per gli ultimi metri che lo separavano dalla salvezza. Quel pensiero le serrò lo stomaco in una morsa. Galilee avrebbe potuto essere così vicino, così vicino, disperatamente bisognoso di aiuto.

“Voglio dare un’occhiata alla spiaggia”, disse a Niolopua. “Per vedere se c’è qualche traccia…”

“Vuoi che venga con te?”

“No.” Rabbrividì. “No, grazie.”

Dal taschino della camicia, Niolopua prese una sigaretta arrotolata a mano e un antiquato accendino d’acciaio. “Vuoi fare un tiro prima di andare? È roba buona.”

Rachel annuì. Niolopua accese lo spinello e glielo passò. Lei trasse una lunga boccata di fumo fragrante, poi gli restituì la sigaretta.

“Fai pure con calma”, le disse lui. “Non vado da nessuna parte.”

Sentendosi la testa piacevolmente leggera, Rachel si incamminò lungo la spiaggia. Pochi metri più in là, trovò altre parti del relitto: un intreccio di funi e cavi; quello che sembrava un pezzo della timoniera; il frammento di un pannello di comando con gli strumenti ancora intatti. Forse lì sopra c’era una scritta che avrebbe potuto confermare o smentire i sospetti di Niolopua.

Rachel sollevò il pannello ma non trovò niente; nemmeno il nome del produttore sugli indicatori. Frustrata, lo gettò sulla sabbia e si rialzò. In quel momento, la droga giocò uno strano scherzo al suo corpo. D’improvviso, il suo udito si acuì in modo sorprendente. Poteva sentire, alla sua sinistra, il mare, lo sciabordio ritmico delle onde; e, alla sua destra, i suoni della vegetazione attraversata da una leggera brezza che faceva frusciare le foglie e i boccioli.

Si voltò a guardare Niolopua che si era seduto sulla sabbia e stava scrutando il mare. Questa volta non le interessava ciò che il mare aveva da mostrarle, invece spostò gli occhi sul pendio della spiaggia. Pochi metri più in là, Rachel notò un piccolo corso d’acqua che emergeva dagli alberi e che tracciava un sentiero irregolare sulla sabbia fino al mare, e decise di andare fino alla sorgente. Una folata di vento fece ondeggiare la vegetazione e alcuni boccioli colorati sembrarono annuire come per incoraggiarla.

Raggiunto il fiumiciattolo, si tolse i sandali ed entrò nell’acqua fredda. Si chinò, immerse le mani e si fece scorrere l’acqua tra le dita per qualche secondo. Poi raccolse un po’ d’acqua con le mani e si sciacquò il viso, passandosi le dita bagnate tra i capelli. L’acqua gelata le scese lungo il collo e tra i seni. Rachel si portò una mano al petto e sentì che il suo cuore stava battendo all’impazzata. Perché? Non erano solo l’acqua gelata e la marijuana a farla sentire così strana: c’era qualcos’altro. Seguì il corso d’acqua con lo sguardo fino alla vegetazione scossa dal vento. Che cosa c’era tra quelle ombre? Qualcosa la stava chiamando; il suo messaggio era nell’acqua, le scorreva contro la pelle, attraverso i nervi fino al cuore e alla testa.

Seguendo la gentile corrente dell’acqua, arrivò fino al limitare della vegetazione. Rachel si fermò per controllare che non vi fosse un modo più facile per addentrarsi nella foresta, ma non vide niente. Il fogliame era troppo fitto in ogni direzione: il modo più semplice per proseguire era continuare a camminare nell’acqua.

Presa quella decisione, abbandonò il sole e si immerse tra le ombre.

Dopo qualche passo si voltò verso la spiaggia. Anche se l’oceano era solo a una cinquantina di metri da lei, avrebbe potuto anche appartenere a un altro mondo. Là fuori era tutto così luminoso e blu; e lì, tra gli alberi, era tutto così scuro e verde.

Rachel riprese ad avanzare. L’acqua non scorreva più sulla sabbia, adesso, ma su pietre e foglie marce. Era un percorso scivoloso, reso ancora più arduo dal fatto che il terreno stava diventando sempre più ripido. Faticosamente, Rachel raggiunse un piccolo altopiano, dove poté procedere più agevolmente.

Non riusciva più a vedere la spiaggia né a sentire il rumore delle onde. Cominciava a essere stanca. La curiosità che aveva provato quando era ancora sulla spiaggia stava svanendo. Avrebbe potuto continuare a vagare così per ore senza trovare niente. Al centro del corso d’acqua scorse una roccia piatta su cui sedersi e riposare. Non aveva l’orologio con sé, ma da quando si era inoltrata nella foresta doveva essere passata almeno mezz’ora. Abbastanza perché Niolopua cominciasse a chiedersi dove diavolo fosse finita.

Si alzò in piedi sulla roccia e gridò il suo nome. Era impossibile capire se la sua voce fosse riuscita ad attraversare la fitta vegetazione.

Quasi subito, rimpianse di aver gridato. Per qualche assurda ragione, cominciava a essere preoccupata. Si guardò attorno. Non era cambiato niente; soltanto verde, sopra e sotto di lei.

“È ora di tornare indietro”, si disse, e con cautela fece il primo passo per scendere dalle rocce scivolose. In quell’istante percepì la presenza di quella stessa forza che aveva avvertito sulla spiaggia.

Istintivamente, si voltò a guardare il corso d’acqua, in cerca di un indizio. Ma non notò niente di fuori dall’ordinario. Si concentrò, tentando di distinguere le forme e le combinazioni di luce e ombra che la circondavano…

Un momento! Che cos’era quella sagoma scura a una decina di metri da lei, che giaceva riversa nell’acqua?

Rachel non osava sperare. Ricominciò a risalire il fiume, anche se più avanti c’era un grosso masso caduto che non avrebbe potuto aggirare. Fu costretta a scalarlo, cercando disperatamente nuovi appigli, mentre l’acqua scorreva attorno a lei. Quando raggiunse la sommità della roccia, era quasi senza fiato per il freddo, ma la sagoma che prima aveva solo intravisto adesso era più visibile. E Rachel, guardandola, emise un tale grido di felicità che alcuni uccelli, spaventati, si levarono in volo dai rami sopra di lei.

Era lui! Non c’erano dubbi. Le sue preghiere erano state esaudite.

Lo chiamò e si affrettò a raggiungerlo, strappando i rampicanti che le bloccavano la strada. Il volto di Galilee era cinereo, ma aveva gli occhi aperti. La vide, la riconobbe.

“Oh, amore mio”, esclamò, inginocchiandosi accanto a lui, prendendolo tra le braccia. “Dolcissimo amore mio.” La pelle di Galilee era ancora più gelata dell’acqua in cui era immerso.

“Sapevo che mi avresti trovato”, sussurrò lui con un filo di voce, la testa sul grembo di Rachel. “Cesaria… me lo aveva detto.”

“Dobbiamo tornare alla spiaggia”, gli disse Rachel. Lui le rivolse il più fragile dei sorrisi, come se lei gli avesse appena detto una tenera assurdità. “Riesci ad alzarti?”

“I morti erano venuti a prendermi”, disse lui, scrutando un punto nella vegetazione come se alcuni dei suoi inseguitori potessero essere ancora lì, in agguato. “Mi hanno seguito in mare. Gli uomini che ho ucciso…”

“Stai delirando…”

“No, no”, insistette lui scuotendo la testa. “Erano reali. Stavano cercando di trascinarmi in mare.”

“Hai bevuto acqua di mare…”