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Era quasi notte quando arrivarono alla casa. Era calata l’oscurità ma Galilee sembrava sapere dove si trovavano nonostante il delirio, perché mentre lo accompagnavano lungo il sentiero sollevò la testa di qualche centimetro e guardò la casa da sotto le palpebre pesanti.

“Loro… sono… qui?” domandò.

“Chi?”

“Le donne”, rispose lui.

“No, tesoro”, lo tranquillizzò Rachel, “ci siamo solo noi.”

Lui stirò le labbra nel più debole dei sorrisi, lo sguardo ancora fisso sulla casa buia. “Lasciatemi dormire”, disse. “Verranno.”

Rachel non lo contraddisse. Se il pensiero della presenza delle donne Geary gli era di qualche conforto, andava benissimo così. Perdipiù quella prospettiva sembrò in qualche modo dargli nuova energia per percorrere ancora qualche metro. Galilee volle a tutti costi entrare in casa reggendosi sulle sue gambe, come se per lui quello fosse un punto d’onore: lui, che aveva costruito quella casa con le sue stesse mani, non voleva essere visto mentre varcava la soglia sostenuto da qualcuno. Comunque, non appena si trovò all’interno, non poté fare altro che abbandonarsi all’aiuto di Rachel e Niolopua. Chinò di nuovo il capo e chiuse gli occhi.

Niolopua propose di farlo sdraiare sul divano, ma Rachel non aveva dubbi: dovevano portarlo al piano superiore, sul letto intarsiato. Lì si sarebbe ripreso molto più velocemente. Non fu facile portarlo su per le scale; impiegarono più di cinque minuti. Ma fatto questo non incontrarono altre difficoltà: percorsero il corridoio, lo accompagnarono in camera e lo fecero sdraiare sul letto.

Rachel gli sistemò un cuscino sotto la testa e lo coprì con le lenzuola. La sua pelle era di nuovo gelida, come quando lo aveva trovato, ma se non altro non aveva più quel colorito cinereo. Le sue labbra erano secche e screpolate, così lei le ammorbidi con un po’ di burro di cacao. Gli strappò di dosso la camicia a brandelli ed esaminò le numerose contusioni che aveva sul petto. Nessuna delle ferite stava sanguinando e Rachel, preso un asciugamano, gliele lavò a una a una. Niolopua la aiutò a girare Galilee a pancia in giù per permetterle di pulirgli anche i tagli che aveva sulla schiena. Poi lei gli slacciò i pantaloni e glieli sfilò. Adesso Galilee era completamente nudo sul lenzuolo bianco, la sua grande sagoma nera che giaceva supina come se fosse caduta dal paradiso.

“Posso andare adesso?” chiese Niolopua. Evidentemente trovarsi in quella stanza con suo padre in quelle condizioni lo metteva a disagio. “Vado al piano di sotto. Se hai bisogno di me, chiamami”, e scomparve oltre la porta.

Rachel tornò in bagno per sciacquare gli asciugamani con cui aveva lavato le ferite di Galilee. Quando tornò da lui, non poté fare a meno di soffermarsi un istante ad ammirarlo. Oh, era bellissimo. Anche adesso che era profondamente addormentato, il suo corpo provato dagli stenti, c’erano ancora potenza e regalità in lui. Nelle braccia possenti, che l’avevano avvolta senza alcuno sforzo; nel collo massiccio; nel volto aristocratico dagli zigomi alti; nella bocca lucida di burro di cacao; nella fronte segnata e nella folta barba brizzolata. E poi giù, oltre i muscoli addominali, nel membro enorme, ora sopito contro il ventre. Avrebbe avuto un figlio da lui, pensò mentre lo osservava; quali che fossero i rischi per il suo corpo, avrebbe avuto qualcosa di lui dentro di sé, come prova della loro unione.

Rachel prese a pulirgli le abrasioni che aveva sulle cosce e sugli stinchi, con infinita tenerezza. C’era qualcosa di insopportabilmente erotico nella completa passività di Galilee. Lei si bagnò al solo pensiero di mettersi sopra di lui, di strusciarsi contro il suo sesso fino a farlo diventare duro, di averlo finalmente dentro di sé. Cercò di scacciare quell’idea e di pensare solo a prendersi cura di lui, ma la sua mente e il suo sguardo non facevano che ritornare all’inguine di Galilee. Benché lui non accennasse minimamente a svegliarsi, Rachel ebbe la bizzarra sensazione che il suo membro si fosse accorto di lei. Galilee era perso nei suoi sogni, ma il suo membro era sveglio e si stava gonfiando e allungando.

Rachel posò l’asciugamano e incominciò a toccarsi tra le gambe. Si passò le dita sul sesso bagnato, facendosele scivolare nella vagina. Poi portò le dita bagnate al sesso di lui e le fece scorrere su e giù, dolcemente. Lui reagì, fremendo di piacere sotto le sue carezze.

Rachel guardò il viso di Galilee e per un attimo immaginò che quella fosse solo una sua sottile forma di seduzione e che da un momento all’altro avrebbe aperto gli occhi, le avrebbe sorriso e l’avrebbe invitata a raggiungerla sul letto. Ma le sue palpebre non si sollevarono, la sua bocca rimase immobile. Sembrava in uno stato di completa quiescenza. Non c’era alcuna traccia dell’uomo che l’aveva amata con passione sulla Samarcanda o del bruto che l’aveva scopata contro la parete del bagno. Solo quello spesso bastone, nodoso come un ramo e dalla punta scoperta. Era irresistibile. Rachel si spogliò e salì sul letto, continuando a scrutare il viso di Galilee in attesa del suo risveglio. Ma lui continuò a dormire, il respiro lento e regolare.

Rachel era ancora dolorante per la stanchezza, e i suoi fianchi si lamentarono per lo sforzo di mettersi a cavalcioni di Galilee. Ma il piacere che il corpo di lui le donava la ricompensò più che adeguatamente. Quando accolse dentro di sé la carne di Galilee, si rese conto che il gelo della sua pelle era scomparso; ora i suoi fianchi, il suo inguine, il suo sesso scottavano di eccitazione. All’improvviso, Galilee incominciò a muoversi sotto di lei, dentro di lei, spingendole il membro contro la carne, finché Rachel non emise un singhiozzo di piacere, poi un altro e poi un altro ancora.

Ben presto la camera prese a riecheggiare dei suoi gemiti, dei suoi ansiti e delle sue grida. Il letto cigolò quando il movimento del bacino di lui divenne più frenetico; lei ricadde in avanti, appoggiandogli le mani sul petto che bruciava quanto l’inguine. Poi spostò una mano per toccare il punto in cui i loro corpi si incontravano: era bagnato dei suoi umori. E l’aria tra i loro corpi era carica del suo odore. Non era un profumo, non era una fragranza, niente di così delicato. Era un odore maturo, l’odore della sofferenza e della solitudine che sgorgavano dal suo corpo finalmente guarito. Rachel capì come non aveva mai capito in vita sua il senso primitivo di quell’atto. Non servivano parole d’amore né promesse di eterna fedeltà: era un atto spoglio di sentimenti; la sua carne che abbracciava quella di lui, che esigeva ciò che le era dovuto. Se qualcuno in quel momento le avesse chiesto il suo nome, non avrebbe saputo rispondere. Rachel — che aveva combattuto così duramente per non smarrire se stessa — aveva trovato la via d’uscita dal labirinto per arrivare in quel luogo di oblio, dove tutte le Rachel che era stata venivano eclissate.

Mentre si muoveva su di lui, ebbe la sensazione che la stanza stesse fremendo attorno a loro, che i vetri alle finestre stessero tremando, che i suoi singhiozzi e i suoi sospiri riecheggiando tra le pareti stessero tornando a lei centuplicati, come se la sua voce avesse risvegliato altre voci, altre vibrazioni, che fino a quel momento erano rimaste prigioniere. Si rese conto che non era soltanto il desiderio che provava per lui a renderla così sfacciata; c’era anche qualcosa di più profondo, lì.