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Riaprì gli occhi e, attraverso il velo tremolante del piacere, guardò il volto dell’uomo che amava. L’espressione di Galilee non era cambiata, ma adesso i suoi occhi erano aperti, impercettibilmente, e la stava fissando.

Non siamo soli….” disse lui.

Diciannove

In spiaggia erano arrivati alcuni surfisti per cavalcare qualche onda prima del tramonto. Le loro grida entusiaste riecheggiavano attraverso il prato fino alla veranda dove sedeva Niolopua, fumando un ultimo spinello. La vista di suo padre nudo sul letto lo aveva messo a disagio. Anche se conosceva Galilee da più di una vita umana, non lo aveva mai visto così vulnerabile prima d’ora. E anche se credeva che le intenzioni di Rachel fossero buone, che i suoi sentimenti per suo padre fossero sinceri, c’era una parte di lui che voleva disperatamente allontanare Galilee da lei, portarlo via da quella maledetta casa così piena di ricordi tristi; portarlo sulle colline dove né Rachel né qualsiasi altra Geary avrebbe mai potuto trovarlo. L’amore non era abbastanza, non in questo mondo. L’amore finiva nel tradimento o nella tomba, prima o poi; era solo una questione di tempo.

Tuttavia l’erba lo risollevò da quei pensieri cupi. Non doveva essere così pessimista. Il fatto che lui non avesse mai assaporato la felicità non significava che non esistesse. Era solo molto difficile affrontare i cambiamenti che lo attendevano. La sua era stata un’esistenza dura — nascosto quasi sempre nella sua baracca in modo che gli isolani non si accorgessero che il passare degli anni quasi non lo toccava. Aveva vissuto in funzione delle visite di suo padre sull’isola. Era stato il suo tramite attraverso i decenni, quello che lo aveva informato che c’era bisogno di lui a Kaua’i, quello che aveva facilitato ogni relazione e che più di una volta si era trattenuto per dare conforto alla donna dopo la partenza di suo padre. Non gli aveva mai fatto domande sui suoi compiti né sulla sua capacità di svolgerli. C’era un legame solido tra padre e figlio; un legame di menti. Tutto ciò che Niolopua doveva fare era restare seduto nel silenzio della sua baracca e pronunciare il vero nome di suo padre — Atva, Atva — e Galilee lo sentiva, dovunque si trovasse. Non c’era bisogno di ulteriori istruzioni. Niolopua aveva chiamato quel nome solo quando una donna della famiglia Geary gli aveva chiesto di farlo. E Galilee era sempre venuto, la sua abilità di marinaio così straordinaria, la sua conoscenza del vento e delle correnti così profonda che talvolta era arrivato ancora prima della donna alla quale avrebbe dovuto donare piacere. Secondo Niolopua tutto questo era sconfortante; suo padre, il grande viaggiatore, che veniva chiamato come un animale da compagnia. Ma non toccava a lui mettere in dubbio quel rituale. L’unica volta che ci aveva provato, Galilee gli aveva detto in modo molto chiaro che quell’argomento non era aperto a nessun genere di discussioni. Niolopua non aveva più osato dire niente in proposito. Non era la rabbia di suo padre che aveva temuto; Galilee non gli aveva mai dimostrato altro che amore. Era stato il dolore che aveva visto in lui a zittirlo. Si era rassegnato a non conoscere mai la ragione per cui Galilee si offriva come amante a quelle donne sole. Era un fatto che faceva parte della vita sua e di suo padre.

Le cose sarebbero cambiate ora? Il fatto che l’indole di Galilee avesse rischiato di distruggerlo avrebbe segnato un mutamento radicale nelle loro esistenze d’ora in avanti? Rachel era l’ultima Geary che Galilee avrebbe servito? E se era così, cosa sarebbe rimasto a Niolopua? Probabilmente niente.

Aspirò un’ultima boccata di marijuana e gettò il mozzicone sul prato. Poi si voltò a guardare la casa. Ormai era calata la notte e l’edificio era immerso nell’oscurità. Niolopua attese di scorgere qualche segno di vita ma non vide niente. Era probabile che Rachel fosse ancora al piano di sopra e si stesse prendendo cura di suo padre. Forse avrebbe fatto meglio ad andarsene, pensò; né lei né Galilee avevano bisogno di lui, ora. Sarebbe tornato il giorno dopo per salutarli. Indugiò sulla veranda ancora per qualche secondo, poi si girò e scese i gradini che portavano al prato.

Non si accorse dell’uomo fino all’ultimo momento; non ebbe il tempo di parlare né di gridare. Il coltello affondò in lui troppo rapidamente, con tanta forza che Niolopua rimase di colpo senza respiro. Cercò di riprendere fiato e di allontanarsi dal suo aggressore, ma solo uno dei suoi polmoni funzionava ormai; l’altro era stato perforato e si stava già riempiendo di sangue. L’uomo lo colpì ancora, conficcandogli la lama nello stomaco. Niolopua si piegò in due, ma l’uomo gli afferrò il viso con una mano e lo spinse via. Niolopua cadde all’indietro, portandosi le mani alle ferite nella disperata speranza di riuscire a tamponarle e di sopravvivere abbastanza a lungo per chiedere aiuto. Ma non ebbe la forza di gridare; tutto ciò che riuscì a fare fu dirigersi verso la casa, ogni passo un’autentica agonia. Con la coda dell’occhio intravide l’uomo col coltello a qualche metro da lui, che ora si limitava a osservarlo. Barcollando, Niolopua raggiunse la veranda e cominciò a salire i gradini. A quel punto si gettò in avanti e per un istante osò sperare che il rumore che avrebbe fatto cadendo avrebbe richiamato l’attenzione di qualcuno e che il suo assalitore sarebbe fuggito. Ma proprio in quel momento, l’uomo tornò ad avventarsi su di lui, la sua sagoma confusa agli occhi di Niolopua come una fotografia sfocata.

Solo alla fine, quando l’uomo fu su di lui e affondò il coltello per la terza e ultima volta nel suo corpo, Niolopua vide il volto del suo assassino. Conosceva quell’uomo. Non personalmente, ma lo aveva visto sulle copertine di molte riviste. Era un Geary. Sui suoi lineamenti regolari non c’era alcuna espressione; sembrava in trance, lo sguardo assente, la bocca semiaperta.

Emettendo un piccolo grugnito, l’aggressore estrasse la lama dalla ferita, e Niolopua cadde in avanti sulla veranda, la sua mano protesa a pochi centimetri dalla porta. Il giovane Geary non tentò di colpirlo di nuovo; non ne aveva bisogno. Aveva fatto il suo lavoro. Rimase ad aspettare sui gradini fissando la sua vittima. Niolopua era caduto a faccia in giù, e il sangue che gli scorreva dalla bocca e dal naso stava inondando le assi della veranda. Nei suoi ultimi secondi di vita, il suo spirito fluttuò verso un luogo senza dolore dal quale avrebbe potuto assistere alla scena sotto di lui, ma rimase lì nella sua testa a scrutare il legno su cui giaceva. Il suo corpo cercò di trarre un ultimo respiro agonizzante, ma non ci riuscì. Fu scosso da un brivido ed emise un debole gemito, poi la vita lo abbandonò.

Mitchell osservò il cadavere vagamente sorpreso dalla veemenza con cui lo aveva colpito. Non aveva previsto l’ondata di rabbia che lo aveva travolto alla vista di Galilee Barbarossa, o meglio dell’uomo che aveva scambiato per Galilee Barbarossa. Si era quasi sentito guidare dalla mano che impugnava il coltello; ma, oh, la soddisfazione e il piacere che aveva provato quando la lama era penetrata nella carne. Quei pochi secondi in cui aveva pensato di aver ucciso Galilee erano stati talmente dolci, talmente meravigliosi che adesso era ansioso di provare ancora quelle sensazioni, con l’uomo giusto.

Tornò sul prato e si accucciò, facendo scorrere la lama del coltello sull’erba per pulirla. Un minuto prima quello era stato soltanto un coltello da cucina da quattro soldi, comprato in un piccolo emporio. Ma adesso stava per diventare qualcosa di straordinario: ora che il coltello era stato iniziato, era pronto per compiere un’opera leggendaria. Mitchell si alzò e tornò a guardare la casa. Era immersa nel silenzio ma non aveva dubbi che i suoi nemici fossero lì dentro; prima aveva sentito Rachel singhiozzare come una puttana.

Ripensando a quel suono, salì i gradini del portico, scavalcò il cadavere, aprì la porta ed entrò in casa.