“Cadrò dove?”
“Ma sulle tue stesse mani, naturalmente”, ha detto lei. Era divertita da me? Dalle mie lacrime e dai miei tremori? Penso di sì. Ma non potevo biasimarla; anche una parte di me mi trovava ridicolo, impegnato a pregare un dio che non avevo mai visto per sfuggire alla vista di glorie per le quali un uomo di fede avrebbe dato qualsiasi cosa. Ma avevo paura e non riuscivo a staccarmi da quello stato d’animo. Avevo paura.
“Poni la tua domanda”, ha detto Cesaria. “Tu hai una domanda. Ponila pure.”
“Sembra così infantile.”
“Allora ascolta la risposta e passa ad altro. Ma prima devi chiedere.”
“Sono… al sicuro?”
“Al sicuro?”
“Sì. Al sicuro.”
“Nella tua carne? No. Non posso garantirtelo. Ma nella tua forma immortale, niente e nessuno può distruggerti. Se cadrai tra le tue stesse dita, ci saranno altre mani a sostenerti. Te l’ho già detto.”
“E… Sì, penso di crederti”, ho risposto.
“Allora”, ha detto Cesaria, “non hai alcuna ragione per impedire ai ricordi di raggiungerti.”
Si è avvicinata ancora di più. La sua mano era coperta di un’infinità di serpenti: sottili come capelli ma dai colori sgargianti, gialli, rossi e blu, attoreigliati attorno alle sue dita come gioielli vivi.
“Toccami…”
Ho alzato lo sguardo sul suo viso che aveva un’espressione dolce e calma, e poi ho osservato di nuovo la mano che voleva che prendessi.
“Non aver paura”, mi ha detto. “Non mordono.”
Ho preso la sua mano. Aveva ragione, i serpenti non mi hanno morso, ma hanno sciamato; dalle sue dita alle mie e poi sul dorso della mano e lungo il braccio. Ero così distratto da quella vista che non mi sono reso conto che Cesaria mi stava sollevando da terra finché non mi sono trovato quasi in piedi. Dico in piedi, anche se non riesco a immaginare come questo sia possibile; le mie gambe fino a quel momento erano state incapaci di sostenere il mio peso. Eppure mi sono trovato in piedi, aggrappato alla sua mano, il volto a pochi centimetri dal suo.
Non credo di essere mai stato così vicino alla moglie di mio padre prima di quel momento. Anche quando ero stato un bambino arrivato dall’Inghilterra ed ero stato accettato come suo figlio adottivo, Cesaria si era sempre tenuta a una certa distanza da me. Ma adesso ero in piedi, così vicino a lei, e anche se sentivo i serpenti attorcigliarmisi al braccio, non mi importava più: non ora che davanti a me vedevo il suo viso. Era perfetta. La sua pelle, nonostante fosse così scura, possedeva un chiarore incredibile, il suo sguardo, come la sua bocca, era allo stesso tempo invitante e proibito. Alcune ciocche dei suoi capelli sono state sollevate dalle ondate di calore che ci circondavano e mi hanno sfiorato le guance. Il loro tocco, benché leggero, è stato profondamente sensuale. Sentendolo e vedendo i suoi lineamenti squisiti, non ho potuto evitare di chiedermi come sarebbe stato essere ricevuto tra le sue braccia. Baciarla, giacere con lei, generare un figlio dentro di lei. Non c’era da meravigliarsi che mio padre fosse stato ossessionato da quella donna fino alla morte, anche se il loro amore aveva conosciuto ogni tipo di scontro, di delusione e di amarezza.
“E adesso…” ha detto lei.
“Sì?” Giuro che avrei fatto qualunque cosa per lei in quel momento. Ero come un innamorato di fronte alla sua amata; non avrei potuto negarle niente.
“Riprenditi tutto…”
Non ho capito di cosa stesse parlando. “Che cosa dovrei riprendermi?” ho domandato.
“Il respiro. Il dolore. Me. Tutto. Appartiene a te, Maddox. Riprenditi tutto.”
Ho capito. Era tempo di riappropriami di tutto ciò che avevo cercato di negare a me stesso: le visioni che erano parte del mio sangue, anche se le avevo sempre tenute nascoste; il dolore che a sua volta, nel bene e nel male, mi apparteneva. E, naturalmente, la stessa aria dei miei polmoni, con la quale quel viaggio aveva avuto inizio.
“Riprenditi tutto.”
Avrei voluto implorarla perché mi concedesse qualche altro istante di grazia, per poterle parlare, forse; per poterla guardare, se non altro, prima che il mio corpo fosse restituito alla sua agonia. Ma lei stava già facendo scivolare le dita fuori dalla mia stretta.
“Riprenditi tutto”, ha ripetuto una terza volta, e per essere certa che le obbedissi, ha avvicinato il volto al mio e ha tratto un profondo respiro, così dolce e forte da svuotarmi la bocca, la gola e i polmoni in un solo istante.
La testa ha cominciato a girarmi; sono comparse macchie bianche e ardenti ai margini del mio campo visivo, che hanno minacciato di offuscarmi del tutto la vista. Tuttavia il mio corpo ha agito con un suo vigore intrinseco e, senza che la mia mente glielo ordinasse, ha fatto ciò che voleva Cesaria: si è ripreso il respiro.
L’effetto è stato immediato, e per i miei occhi incantati terribile. Il volto favoloso che si trovava davanti a me si è dissolto come se fosse stato evocato dalla nebbia e come se i miei polmoni bisognosi lo avessero disfatto. Ho alzato lo sguardo sperando di intravedere ancora una parte di quel cielo antico prima che svanisse, ma era già troppo tardi.
Ciò che un momento prima mi era sembrato reale al di là di ogni dubbio, in un secondo era diventato niente. No, non niente. Si è dissolto in frammenti come aveva fatto l’aria incantata quando ero entrato nella stanza. Alcuni trattenevano ancora tracce di colore. C’erano sbavature di blu e bianco sopra di me, e attorno a me, dove la foresta non era stata consumata dalle fiamme, c’erano un centinaio di sfumature diverse di verde; e davanti a me, i luccichii d’oro del fuoco e un’oscurità punteggiata di scarlatto, dove avevo visto la moglie di mio padre. Ma anche questi ultimi resti sono evaporati nell’arco di un istante, e io mi sono ritrovato nell’arena di grigio su grigio che avevo scambiato per un labirinto di pareti screziate.
Tutti gli eventi che si erano appena dipanati avrebbero anche potuto apparirmi come fittizi, se non fosse stato per un semplice particolare: ero ancora in piedi. Qualunque forza la mia niente avesse scatenato, aveva agito con un potere tale da sollevarmi da terra e rimettermi in piedi. E io sono rimasto là, senza parole, certo che sarei ricaduto a terra da un momento all’altro. Ma anche quell’istante è passato; e così l’istante dopo, e quello dopo, e quello dopo ancora, e io ero ancora in piedi.
Con cautela mi sono voltato a guardare al di là della mia spalla. Là, a meno di dieci metri da me, c’era la porta che avevo varcato prima delle visioni. Accanto a essa, rovesciata, c’era la mia sedia a rotelle. L’ho fissata. Avevo davvero il coraggio di credere che d’ora in poi non mi sarebbe più servita?
“Ma guardati…” ha detto una voce strascicata.
Ho spostato lo sguardo dalla sedia a rotelle alla porta, e ho visto Luman appoggiato allo stipite. Mentre ero occupato nella stanza, aveva trovato dell’altro liquore. Non una bottiglia ma una caraffa. Aveva lo sguardo vacuo di chi ha ecceduto non poco con l’alcool. “Sei in piedi”, ha detto. “Come hai fatto?”
“Io non…” ho risposto. “Voglio dire, non capisco perché non sono ancora caduto.”
“Ce la fai a camminare?”
“Non lo so. Non ho ancora provato.”
“Be’, Cristo, provaci.”
Ho abbassato gli occhi sui miei piedi che da centotrent’anni non prendevano più ordini da me. “Muovetevi”, ho mormorato.
E loro si sono mossi. All’inizio con difficoltà, ma si sono mossi. Prima il sinistro, poi il destro, voltandomi verso Luman e la porta.
Non mi sono fermato. Ho continuato a muovermi, il respiro rapido e affannoso, le braccia protese davanti a me per arrestare la caduta se le gambe avessero dovuto cedermi all’improvviso. Ma non è stato così. Era accaduto un qualche miracolo quando Cesaria mi aveva sollevato. La sua forza di volontà, o la mia, o quella di entrambi, mi aveva guarito. Potevo camminare. Col tempo, avrei potuto correre. Sarei andato in tutti i luoghi che non avevo visto durante gli anni in cui ero stato bloccato sulla sedia a rotelle. Fuori nella palude, e oltre, sulle strade; nei giardini che si trovavano oltre la Casa del Fumo di Luman; alla tomba di mio padre nelle stalle abbandonate.