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“Un’ultima cosa”, disse Rachel.

“Sì?”

“È così che diventerò anch’io un giorno? Come le donne della casa? Morirò e tu mi sognerai quando ti sentirai solo?”

“No. Sarà diverso per noi.”

“Cosa vuoi dire?”

“Entrerai a far parte della famiglia Barbarossa, Rachel. Farò di te una di noi, così la morte non potrà portarti via da me. Non so ancora come ci riuscirò, ma è questo che ho intenzione di fare. E se mi sarà impossibile…” Le prese la mano. “Se non potrò vivere con te, allora morirò con te.” La baciò. “È questa la mia promessa. D’ora in poi staremo sempre insieme. Che sia fino alla tomba o fino alla fine del tempo.”

Tre

1

Sono rimasto sveglio tutta la notte per scrivere la confessione di Galilee. In un certo senso è stata la mia fatica più piacevole: è stato un modo per scaricarmi finalmente del peso di alcune parti di questa storia che avrei voluto scrivere già da tempo; ed è stato bello alternare la mia voce a quella di Galilee nella narrazione. Ma è stato anche uno dei molti atti conclusivi che vivrò in questi giorni. Forse penserete che la mia sia un’affermazione strana dal momento che la stesura di questo libro è stata estremamente faticosa ma, nonostante tutte le mie lamentele, sono stato commosso e cambiato da questo viaggio e non ne attendo la fine con ansia come avevo immaginato. Per la verità, ho paura di concluderlo. Ho paura che quando sarò arrivato alla fine e riporrò la mia penna, avrò riversato così tanta parte di me stesso sulla pagina che ciò che resterà di me sarà inadeguato. Che sarò vuoto o quasi vuoto.

Il mio umore è migliorato quando ha cominciato a risuonare il coro dell’alba e sono finalmente scivolato tra le lenzuola. Almeno avevo creato qualcosa, mi sono detto: se fossi morto nel sonno, non mi sarei lasciato dietro solo qualche capello nel lavandino e qualche macchia di saliva sulla federa del cuscino, ma la prova del mio desiderio di dare ordine al caos.

E, a proposito di caos, mentre mi addormentavo mi sono reso conto di essermi perso i festeggiamenti per il matrimonio di Marietta. Non vi avrei partecipato comunque; se anche il libro non avesse richiesto tutta la mia attenzione, mi sarei inventato una scusa qualsiasi per restare a casa. Quando finalmente abbandonerò i confini dell’Enfant, mi sono detto, non sarà per ubriacarmi in qualche bar con le amiche lesbiche di Marietta. D’altra parte, non ho potuto fare a meno di pensare al suo matrimonio, di considerarlo un’ulteriore prova di come le cose stessero cambiando e di come io, che ero stato testimone di tutti quei mutamenti e li avevo trascritti fedelmente, rischiassi di restare sempre uguale a me stesso. Certo, mi stavo autocommiserando, ma a volte l’autocommiserazione è migliore di qualsiasi ninnananna. E così, perso nel mio martirio, mi sono addormentato.

Ho sognato di nuovo: questa volta non ho sognato né il mare né la grigia desolazione di una città, ma un cielo luminoso e un deserto selvaggio. Poco lontano da me, c’era una carovana di uomini e cammelli e al loro passaggio si sollevavano nuvole di polvere ocra. Ho sentito gli uomini gridare ordini ai loro animali, lo schiocco secco dei bastoni contro i fianchi dei cammelli. Ho sentito anche il loro odore, l’aroma pungente della terra e del cuoio. Non avevo un grande desiderio di unirmi a loro, ma quando mi sono guardato attorno mi sono reso conto che il paesaggio che mi circondava era completamente vuoto.

Sono dentro me stesso, ho pensato, polvere e vuoto in ogni direzione; è questo che mi resta ora che ho finito di scrivere.

La carovana si stava allontanando da me. E io mi sono reso conto che se non mi fossi mosso al più presto, l’avrei persa di vista. Cosa avrei fatto a quel punto? Sarei morto di solitudine o di sete. Per quanto infelice potessi essere, non ero ancora pronto per una cosa simile. Mi sono incamminato verso la carovana e ben presto ho incominciato a correre.

Poi, all’improvviso, mi sono ritrovato in mezzo ai viaggiatori, circondato dal loro chiasso e dal loro odore. Ho percepito il movimento ritmico di un cammello sotto di me e abbassando lo sguardo mi sono accorto che mi trovavo proprio sulla schiena di uno degli animali. Il paesaggio — quel vuoto doloroso di terra riarsa — adesso era nascosto dalla polvere sollevata dai viaggiatori attorno a me.

Qualcuno ha cominciato a cantare, con voce sempre più sicura nel fragore della carovana. Era un canto onirico, del tutto incoerente ma stranamente familiare. Ho ascoltato con attenzione, cercando di dare un senso alle sillabe che sentivo. Ma la canzone continuava a sfuggirmi anche se in certi momenti mi sembrava incredibilmente vicina.

Stavo per arrendermi, quando qualcosa nel ritmo del canto mi ha fornito un indizio e le parole, che fino a pochi istanti prima mi sembravano prive di senso, sono diventate chiare.

Non era il canto di un viaggiatore, quello che stavo ascoltando; non era un qualche peana esotico intonato per il cielo del deserto: era una filastrocca che apparteneva alla mia infanzia. La canzone che avevo cantato dai rami di un prugno molti, molti anni prima.

Ero Sono E sempre Sarò, perché Ero…

Sentendola, ho unito la mia voce al canto e altre voci a loro volta si sono levate attorno a me. E quelle strofe si ripetevano all’infinito come il movimento della ruota delle stelle.

Mi sono sentito invadere dalla gioia. Non ero vuoto, nonostante le lacrime che avevo portato a letto con me. Mi restavano sempre i ricordi, dolci e pungenti come le prugne sui rami di quell’albero. Pronte a essere mangiate quando avevo bisogno di nutrimento. Certo, in fondo a quei frutti c’erano noccioli duri e aspri, ma la polpa che li circondava era morbida e succosa. Dopotutto non me ne sarei andato completamente vuoto.

La canzone continuava ma le voci dei miei compagni invisibili erano sempre più remote. Mi sono voltato a guardare e mi sono accorto che ormai stavo viaggiando da solo e stavo cantando da solo, il ritmo del mio canto perfettamente sincronizzato a quello dei passi del mio cammello.

Ero,

ho cantato.

Sono…

La polvere si stava diradando e qualcosa che luccicava in lontananza ha attratto la mia attenzione.

E sempre Sarò, perché…

Era un fiume; mi stavo avvicinando a un grande fiume circondato da immense e rigogliose distese di erb, fiori e alberi. E, oltre la vegetazione, le mura di una città riscaldate dal sole che stava tramontando.

Conoscevo quel fiume; era lo Zarafsham. E la città? Conoscevo anche quella. Il mio canto mi aveva condotto alla città di Samarcanda.

Ecco tutto. Non mi sono avvicinato più di così. Ma è stato abbastanza. In quel momento mi sono svegliato e ciò che avevo visto era ancora così reale che la malinconia, che mi aveva accompagnato nel sonno, era scomparsa, curata da ciò che avevo vissuto. E questa è la saggezza dei sogni.

2

Era metà pomeriggio quando sono sceso in cucina in cerca di qualcosa da mangiare. Non mi ero cambiato, pensando di potermi preparare un panino e tornare subito in camera senza essere visto da nessuno. Ma in cucina ho trovato Zabrina e Dwight. Il mio aspetto li ha lasciati entrambi perplessi.