Quando arrivò sull’isola, il suo primo dovere fu quello di andare all’obitorio di Lihue per confermare l’identificazione del corpo di Mitchell. Fatto questo, venne accompagnato in macchina fino alla casa, dove gli fu concesso di restare da solo per un po’. Quando, dopo mezz’ora, il capitano della polizia che lo aveva accompagnato non lo vide uscire, entrò e scoprì che non c’era nessuno. Garrison aveva da tempo finito di riflettere ed era andato sulla spiaggia. Lui, vestito di nero e con le mani sprofondate nelle tasche, si stagliava contro il mare bianco e turchese. Garrison stava fissando l’oceano e non si mosse per altri quindici minuti. Quando tornò alla macchina, stava sorridendo.
“Andrà tutto bene”, disse.
2
Non esistono vere conclusioni per tutti questi eventi. Tutte queste vite continueranno anche oltre la fine del libro che state leggendo; ci sarà sempre qualcos’altro da raccontare. Ma devo tracciare una linea e ho deciso di farlo adesso, osservazione più osservazione meno. Per quanto possa essere tentato dall’idea di riprendere il filo dei fatti a cui ho solo accennato, non ho comunque il coraggio di farlo.
Quindi lasciate che vi racconti ciò che è accaduto quando, dopo aver vagato per un po’ per la casa e dopo aver riflettuto su quanto avevo appena scritto, sono arrivato nell’atrio.
Ho alzato gli occhi e là, in cima alle scale, ho scorto un movimento tra le ombre.
Ho pensato che si trattasse di Zabrina e l’ho chiamata, ma mentre pronunciavo il suo nome mi sono reso conto del mio errore. La sagoma che avevo visto sulle scale era sottile e in qualche modo vaga.
“Zelim?” ho azzardato.
Con passo esitante, la sagoma ha fatto qualche gradino. Sì, era proprio Zelim, o ciò che restava di lui. La sua presenza stava al suo vecchio sé, come il suo vecchio sé stava al pescatore di Atva. Era il fantasma di un fantasma, una sagoma ormai quasi impalpabile. Era come un’anima di fumo che manteneva quella forma solo perché non c’era un alito di vento che la disperdesse. Ho trattenuto il fiato. Zelim sembrava talmente fragile che temevo che persino il mio respiro potesse dissolverlo.
Tuttavia aveva abbastanza forza per parlare: una voce tremolante, certo, che si affievoliva sillaba dopo sillaba, eppure dotata di una strana eloquenza. Ho sentito subito la felicità che provava e ho capito che cos’era successo ancora prima che me lo dicesse lui.
“Cesaria mi ha lasciato libero…” ha dichiarato.
Ho ricominciato a respirare. “Sono felice per te”, ho detto.
“Ti… ringrazio…” In quell’ultima fase della sua esistenza, i suoi occhi erano diventati grandi come quelli di un bambino.
“Quando è successo?” gli ho chiesto.
“Solo… pochi… minuti fa…” ha risposto lui. La sua voce era così flebile che quasi faticavo a udirla. “Appena… appena… ha saputo…”
Non sono riuscito a sentire il resto della frase, ma non ho perso tempo a chiedergli di ripetere per paura di sprecare quegli ultimi momenti. Così sono rimasto in silenzio. Zelim era quasi scomparso ora. Non solo la sua voce, ma anche la sua presenza fisica si dissolveva col passare di ogni istante. Non provavo dolore per lui — come avrei potuto quando aveva espresso così chiaramente il suo desiderio di abbandonare il mondo? — tuttavia quello era uno spettacolo stranamente malinconico: un’anima che veniva cancellata davanti ai miei occhi.
“Ricordo…” ha mormorato “… quando è venuto a prendermi…”
Di cosa stava parlando?, mi sono chiesto.
“… a Samarcanda…” ha continuato Zelim. Oh, adesso capivo. Avevo parlato degli eventi che lui stava rievocando, li avevo descritti proprio in queste pagine. Zelim, il vecchio filosofo seduto tra i suoi studenti, intento a raccontare una storia su Dio; Zelim, che aveva alzato lo sguardo e aveva visto uno sconosciuto in fondo alla stanza ed era morto. Ma alla sua morte era stato chiamato al servizio di Cesaria Yaos. Ora che aveva esaurito il suo compito, Zelim stava ripensando — con affetto, a giudicare dall’espressione dolce che gli animava gli occhi — a come era stato chiamato; e da chi. Da Galilee, naturalmente. Ha detto:
“Lui è qui”.
Con quelle ultime tre parole, Zelim ha abbandonato la vita oltre la morte ed è scomparso, fumo e anima.
Lui è qui.
Galilee qui? Mio Dio! Non sapevo se mettermi a gridare con tutto il fiato che avevo in corpo o andare a nascondermi. Ho guardato di nuovo verso la cima delle scale, aspettandomi di vedere Cesaria, aspettando che mi chiedesse di andarlo a prendere e di portarlo da lei. Ma non c’era nessuno e la casa era immobile come lo era stata nel momento in cui Zelim aveva pronunciato le sue ultime parole.
Possibile che Cesaria non si fosse resa conto che Galilee era qui? No, naturalmente no. La casa le apparteneva e nel momento in cui lui aveva varcato la soglia delTEnfant, Cesaria aveva sentito il suo respiro e il battito del suo cuore.
Sapeva che sarebbe tornato presto o tardi, e lo aveva semplicemente aspettato. Poteva permettersi di essere paziente dopo tutti quegli anni lunghi e solitari.
Non sono rimasto nell’atrio ed ero a pochi metri dalla porta del mio studio, quando ho sentito lo squisito profumo di un sigaro avana. Ho aperto la porta e là, seduto dietro la mia scrivania, c’era il grande viaggiatore in persona, intento a sfogliare il mio libro mentre fumava uno dei miei sigari.
Quando sono entrato ha alzato gli occhi su di me e mi ha rivolto un sorriso quasi imbarazzato.
“Mi dispiace”, ha detto. “Non sono riuscito a resistere.”
“Al sigaro o al libro?” ho ribattuto.
“Oh, al libro”, ha replicato lui. “È una storia notevole. C’è qualcosa di vero?”
3
Non gli ho chiesto quanto ne avesse letto o cosa pensasse delle mie eccentricità stilistiche. E non ho risposto alla sua domanda provocatoria sulla veridicità di quanto avevo scritto. Nessuno conosceva la verità meglio di lui.
Ci siamo abbracciati, lui mi ha offerto uno dei miei sigari, che ho rifiutato, e infine mi ha chiesto perché ci fossero così tante donne in casa.
“Siamo passati da una stanza all’altra”, ha spiegato, “in cerca di un letto dove riposarci e…”
“Come sarebbe a dire siamo?”
Lui ha sorriso. “Oh, andiamo, fratello…”
“Rachel?” ho chiesto. Galilee ha annuito. “Rachel è qui?”
“Naturalmente. Credi che potrei mai stare lontano da lei dopo tutto quello che abbiamo passato?”
“Dov’è adesso?”
Lui ha spostato lo sguardo verso la porta della mia camera da letto. “Sta dormendo”, ha risposto.
“Nel mio letto?”
“Non ti dispiace, vero?”
Non sono riuscito a impedirmi di sorridere. “No, certo che no.”
“Be’, sono contento di aver reso felice almeno te in questa dannata casa”, ha replicato Galilee.
“Posso… vederla un attimo?”
“E perché?”
“Perché sono nove mesi che sto scrivendo la sua storia. Vorrei vederla…” Che cosa volevo vedere? Il suo viso? I suoi capelli? La curva della sua schiena? D’improvviso mi sono reso conto di provare una sorta di desiderio per lei. Qualcosa che avevo provato per tutto il tempo senza rendermene conto. “Voglio solo vederla.”
Non sono rimasto ad aspettare che Galilee mi desse il permesso. Mi sono alzato e sono andato alla porta della camera da letto. Il letto era illuminato dal chiarore della luna e là, sdraiata su una vecchia coperta, c’era la donna dei miei sogni a occhi aperti. Non riuscivo a crederci. Eccola: Rachel Pallenberg-Geary-Barbarossa, i suoi capelli lucidi sullo stesso cuscino su cui avevo appoggiato la testa per tante notti chiedendomi come modellare la storia della sua vita. Rachel a Boston, Rachel a New York, Rachel convalescente a Caleb’s Creek, Rachel che camminava sulla spiaggia di Anahola. Rachel disperata, Rachel in extremis, Rachel innamorata…