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E così alla fine mi ritrovo al principio.

Qual è li principio? Dovrei cominciare forse con Rachel Pallenberg, che ultimamente è stata sposata con uno degli uomini più belli e potenti d’America, Mitchell Monroe Geary? Dovrei descriverla in tutta la sua improvvisa desolazione mentre si aggira attorno a una cittadina dell’Ohio, d’un tratto persa anche se questo è il luogo dove è nata e cresciuta? Povera Rachel. Non ha lasciato solo suo marito ma diverse case e appartamenti, e una vita che sarebbe considerata invidiabile dal novantanove per cento della popolazione (il restante un per cento vive già un’esistenza simile e sa che è perlopiù priva di gioie). Ora Rachel è tornata a casa e ha scoperto di non appartenere più nemmeno a questo luogo, il che la spinge a chiedersi: qual è il mio posto?

È una notevole tentazione iniziare da qui. Rachel è così umana; le sue confusioni e le sue contraddizioni sono facili da comprendere. Ma se cominciassi con lei, temo che mi lascerei distrarre dalla modernità. Per prima cosa deve risuonare la nota mitica; devo mostrarvi qualcosa che giunge da un passato lontano, un tempo in cui il mondo era ancora una favola vivente.

Così non posso cominciare con Rachel. Arriverà ben presto in queste pagine, ma non ora.

Deve essere Galilee. Certo, deve essere Galilee. Il mio Galilee, che è stato ed è così tante cose: ragazzo-bambino adorato, amante di innumerevoli donne (e di un considerevole numero di uomini), carpentiere navale, marinaio, cow-boy, stivatore, giocatore di biliardo e magnaccia; codardo, ingannatore e innocente. Il mio Galilee.

Non comincerò con uno dei suoi grandi viaggi, né con una delle sue famose storie d’amore. Comincerò con ciò che accadde il giorno del suo battesimo. Non avrei saputo niente di tutto questo se non fossi entrato nella stanza del lucernario. Ma ora conosco questi eventi con la stessa chiarezza con cui conosco la mia stessa vita. Forse ancora più chiaramente, perché è trascorso solo un giorno da quando sono uscito da quella camera, e questi ricordi mi sembrano vecchi soltanto di ore.

PARTE SECONDA

La sacra famiglia

Uno

Due anime vecchie come il paradiso scesero alla spiaggia in quell’antico mezzogiorno. Uscirono, accompagnate dal latrato armonioso dei lupi, dalla foresta che in quei giorni raggiungeva ancora le rive del Mar Caspio, un intrico così fìtto e una reputazione così sinistra che nessun individuo osava avventurarvisi per più di qualche metro. Non erano i lupi di cui la gente aveva paura, né gli orsi, né i serpenti: era un’altra specie di creature; generate non da Dio, ma da qualcosa di imperdonabile che stava al Creatore come l’ombra sta alla luce.

La gente del luogo aveva leggende in abbondanza su quella tribù empia, anche se le raccontavano solo a bassa voce dietro porte chiuse. Racconti di creature che vivevano tra i rami e divoravano bambini attirati con l’inganno, o che attendevano accovacciate in pozze fetide tra gli alberi adornandosi delle interiora di amanti assassinati. Nessun narratore degno del suo posto attorno al fuoco mancava mai di aggiungere qualche nuovo abominio per arricchire la leggenda. Le storie chiamavano altre storie, si riproducevano in forme sempre più perverse al punto che gli uomini, le donne e i bambini, che vivevano le loro brevi esistenze nello spazio tra il mare e gli alberi, restavano in uno stato di costante terrore.

Anche a mezzogiorno, in un giorno come quello, di aria tersa e cieli lucidi come i fianchi di un grande pesce, persino oggi, in una luce così brillante che nessun demone avrebbe osato sfidare, c’era la paura.

Per dimostrarvelo, lasciate che vi presenti i quattro uomini che quel giorno stavano lavorando sulla riva, intenti a rammendare le reti per la pesca della sera. Erano tutti inquieti, e questo già prima che i lupi cominciassero a cantare.

Il pescatore più anziano era un certo Kekmet, un uomo di quasi quarant’anni anche se ne dimostrava almeno venti di più. Sul suo volto indurito e corrucciato non c’era segno che lasciasse immaginare che avesse mai conosciuto la felicità. La sua espressione più calorosa era perlomeno accigliata, proprio come in quel momento.

“Stai parlando col buco che ti ritrovi in mezzo alle chiappe”, disse al più giovane dei quattro uomini, un ragazzo di nome Zelim, che alla tenera età di sedici anni aveva già perso sua cugina che era morta abortendo. Zelim si era guadagnato la disapprovazione di Kekmet suggerendo che, dato che la vita su quella spiaggia era così dura, tutti gli abitanti del villaggio avrebbero dovuto prendere i loro averi e trovare un posto migliore dove vivere.

“Non c’è nessun posto dove possiamo andare”, disse Kekmet al giovane.

“Mio padre ha visto la città di Samarcanda”, rispose Zelim. “Mi ha detto che era come un sogno.”

“Infatti”, intervenne l’uomo che lavorava accanto a Kekmet “Se tuo padre ha visto Samarcanda, l’ha vista solo nei suoi sogni. O magari mentre era ubriaco.”

L’uomo, che si chiamava Hassan, sollevò la sua brocca piena di ciò che in quel luogo passava per liquore, latte fermentato dall’odore nauseante che beveva dall’alba al tramonto. Si portò la brocca alle labbra e bevve. Il liquido sudicio gli sfuggì dalla bocca gocciolandogli sulla barba unta. Poi passò la brocca al quarto membro del gruppo, un certo Baru, un uomo straordinariamente grasso e dal pessimo carattere. Bevve rumorosamente e appoggiò la brocca accanto a sé. Hassan non tentò nemmeno di riprendersela. Sapeva che non sarebbe stata una buona idea.

“Mio padre…” disse di nuovo Zelim.

“Non è mai stato a Samarcanda”, lo interruppe il vecchio Kekmet con la voce stanca di chi non vuol più sentir parlare di un certo argomento.

Zelim tuttavia non aveva alcuna intenzione di lasciare che la reputazione del suo defunto fosse messa in discussione in quel modo. Aveva voluto bene al vecchio Zelim che era annegato quattro primavere prima quando la sua barca era incappata in una burrasca improvvisa. Per quanto lo riguardava, se suo padre aveva raccontato di aver visto le innumerevoli glorie di Samarcanda, doveva essere vero.

“Un giorno me ne andrò”, disse Zelim. “E vi lascerò tutti qua a marcire.”

“In nome di Dio, vai!” replicò Baru. “Con tutte le tue chiacchiere mi fai male alle orecchie. Sembri una donna.”

Non appena ebbe sputato quell’insulto su Zelim, il giovane si avventò su di lui, prendendo a pugni il volto flaccido e rosso di Baru. C’erano insulti che sapeva accettare dagli anziani, ma questo era troppo. “Non sono una donna!” gridò, colpendo il suo bersaglio finché il sangue non prese a scorrere dal naso di Baru.

Gli altri due pescatori restarono a guardare. Accadeva raramente che qualcuno nel villaggio intervenisse in una disputa. La gente poteva scambiarsi tutti gli insulti e tutti i pugni che voleva; gli altri o guardavano dall’altra parte o si godevano lo spettacolo. Che importava se veniva versato sangue; che importava se una donna veniva violata? La vita continuava comunque.

Inoltre, Baru sapeva certo difendersi. Si scrollò di dosso Zelim con tanta violenza che il ragazzo venne scagliato lontano, vicino a una delle barche. Riprendendo fiato, Baru lo raggiunse.

“Ti strapperò le palle, piccolo bastardo!” urlò. “Non ne posso più di sentirti blaterare di quel cane di tuo padre. È nato stupido ed è morto stupido.” Mentre parlava, allungò una mano tra le gambe di Zelim come se si apprestasse a mettere in atto la sua minaccia, ma il giovane colpì con un calcio il naso già rotto dell’uomo. Baru ululò ma non indietreggiò. Afferrò il piede di Zelim e lo girò con forza, prima a destra e poi a sinistra. Avrebbe potuto rompergli la caviglia — cosa che avrebbe lasciato il ragazzo storpio per il resto dei suoi giorni — se la sua vittima non avesse afferrato un remo dallo scafo basso della barca. Baru era troppo impegnato a spezzargli la caviglia per accorgersene. Facendo una smorfia per la fatica, sollevò lo sguardo per godersi l’agonia di Zelim e proprio in quell’istante il remo si abbatté su di lui. Non fece in tempo a schivarlo. Fu colpito in piena faccia e la mezza dozzina di denti ancora buoni che aveva andò in frantumi. Cadde all’indietro, lasciando andare la gamba di Zelim, e rimase riverso sulla sabbia, coprendosi con le mani il volto ferito, sangue e imprecazioni che gli scivolavano tra le dita grasse.