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Divido questa casa con tre donne, due uomini e un certo numero di indeterminati.

Le donne sono naturalmente Cesaria e le sue fìglie, le mie due sorellastre, Marietta e Zabrina. E gli uomini? Uno è il mio fratellastro Luman (che non vive esattamente in casa, ma fuori, in una baracca sulla proprietà) e Dwight Huddie, che è il nostro maggiordomo, cuoco e tuttofare: vi parlerò ancora di lui in seguito. Poi, come ho già detto, ci sono gli indeterminati, il cui numero è, ovviamente, indeterminato.

Come posso descrivervi queste presenze? Certamente non come spiriti; è una parola che evoca qualcosa di davvero troppo fantasioso. Sono semplicemente lavoratori senza nome, al servizio esclusivo di Cesaria, che si occupano dell’andamento generale della casa. Svolgono bene il loro lavoro. A volte mi domando se Cesaria non li avesse evocati ai tempi in cui Jefferson era ancora al lavoro qui, così da fornire a tutti loro un’educazione pratica sui punti di forza e sulle debolezze del suo capolavoro. In questo caso, sarebbe stata una scena memorabile: Jefferson il grande razionalista, l’uomo dei numeri, obbligato a credere ai suoi stessi occhi, anche se il suo buon senso senza dubbio sarebbe insorto all’idea che creature simili — evocate dall’etere per volere della signora dell’Enfant — potessero esistere. Come ho già detto, non so quanti siano (sei, forse; forse meno), né se siano in effetti proiezioni del volere di Cesaria, o cose che un tempo possedevano un’anima e una volontà. So soltanto che svolgono senza sosta il compito di tenere questa grande casa e i terreni circostanti in condizioni ragionevoli, ma — come tecnici di un teatro — lo fanno solo quando il nostro sguardo è rivolto altrove. Se questo vi sembra piuttosto strano, probabilmente lo è davvero: io mi ci sono soltanto abituato. Non penso più a chi sia a cambiarmi le lenzuola ogni mattina mentre mi lavo i denti, o a chi ricucia i bottoni delle mie camicie quando si allentano, o sistemi le crepe nell’intonaco o poti le magnolie. Do per scontato che il lavoro sarà fatto, e chiunque sia a svolgerlo non desidera scambiare piacevolezze con me più di quanto io desideri scambiarne con loro.

C’è anche qualcun altro in questa casa che penso meriti di essere citato, ed è il servitore personale di Cesaria. Come lei sia arrivata ad averlo come compagno sarà argomento di alcune pagine a venire, quindi fino ad allora lascerò perdere i dettagli. Ma permettetemi di dirvi questo: è, a mio avviso, l’anima più triste della casa. E se si considera la somma del dolore che si trova sotto questo tetto, non è poca cosa.

Comunque, non ho intenzione di perdermi nella malinconia. Andiamo avanti.

Dal momento che ho elencato gli occupanti umani o quasi umani dell’Enfant, forse dovrei menzionare anche gli animali. Una proprietà vasta come questa, naturalmente, ospita innumerevoli specie selvatiche. Ci sono volpi, puzzole e opossum, ci sono gatti selvatici (sfuggiti al loro destino domestico da qualche parte nella contea di Rollins) e un gran numero di cani che si sono stabiliti nel bosco. Gli alberi sono affollati di uccelli notte e giorno, e di tanto in tanto un alligatore abbandona la palude e si avventura fino al prato dove rimane a prendere il sole.

Tutto questo è abbastanza prevedibile. Ma ci sono due specie la cui presenza qui è a dir poco bizzarra. La prima venne importata da Marietta che, alcuni anni fa, si mise in testa di allevare tre cuccioli di iena. Non ricordo come ne fosse entrata in possesso (né se me lo abbia mai raccontato); so soltanto che si stancò abbastanza in fretta di quel surrogato di maternità e finì per liberarle. Le iene si riprodussero, in modo incestuoso naturalmente, e ora là fuori c’è un branco piuttosto consistente. Ci sono altre stranezze che la mia matrigna ama in modo particolare: i porcospini. Fin da quando si è trasferita all’Enfant, li ha tenuti come cuccioli, e loro hanno prosperato. Vivono in casa, dove si aggirano indisturbati, anche se preferiscono restare ai piani superiori, vicini alla loro signora.

Avevamo dei cavalli, naturalmente, ai tempi di mio padre — le stalle erano una vera e propria reggia — ma nessuno di loro è sopravvissuto più di un’ora alla sua morte. Anche se avessero avuto facoltà di scelta in materia (cosa che non avevano), erano troppo legati a mio padre per continuare a vivere senza di lui, troppo nobili. Dubito che si potrebbe dire lo stesso di una qualunque delle altre specie. Coesistono con noi malvolentieri, e dubito che ci piangerebbero a lungo se ce ne andassimo tutti. Non credo che rispetterebbero per molto la santità della casa. Nel giro di una settimana o due, si impossesserebbero della residenza: le iene nella biblioteca, gli alligatori in cantina, le volpi a scorrazzare sotto l’alta cupola. A volte mi chiedo se non ci stiano già pensando; se non stiano facendo progetti per il giorno in cui toccherà a loro riempire questa casa di escrementi dal tetto alle fondamenta.

Due

Le mie stanze si trovano sul retro della casa, quattro stanze in tutto, nessuna delle quali è stata progettata per l’uso che ne faccio attualmente. Quella che è ora la mia camera da letto — quella che considero la stanza più affascinante della casa — in origine era una sala da pranzo, utilizzata dal mio defunto padre, Hursek Nicodemus Barbarossa, che non si è mai seduto una sola volta allo stesso tavolo di Cesaria per tutto il tempo che ho vissuto qui. Ma questo è il matrimonio.

Accanto allo studio dove siedo in questo momento, Nicodemus aveva sistemato una collezione di oggetti, una buona parte dei quali è stata — per suo volere — seppellita insieme a lui quando è morto. Lì teneva il teschio del primo cavallo che aveva avuto, insieme a un’ampia e bizzarra collezione di giocattoli sessuali, costruiti nel corso dei secoli per aumentare il piacere dei connoisseurs (mio padre aveva una storia per ciascun oggetto ed erano tutte immancabilmente divertentissime). Ma non è tutto. C’era anche un guanto d’armatura che era appartenuto a Saladino, l’amante musulmano di Riccardo Cuor di Leone. C’era una pergamena, dipinta per lui in Cina, che raccontava, come mi disse una volta, la storia del mondo (benché ai miei occhi incolti sembrasse soltanto un paesaggio attraversato dalle spire di un fiume); c’erano dozzine di rappresentazioni di genitali maschili — il lingam, il flauto di giada, la verga di Aaron (o come preferiva chiamarlo mio padre Il Santo Membro) — alcune delle quali, immagino, erano state intagliate o scolpite dai suoi stessi sacerdoti, e quindi erano modellate sul sesso che mi aveva generato. Alcuni di quegli oggetti sono ancora lì, sugli scaffali. Potreste pensare che tutto questo sia strano, o persino ripugnante. Non sono certo che sarei pronto a mettere in dubbio una simile opinione. Ma mio padre era un uomo sessuale, e quelle statue, nonostante la loro notevole crudezza, lo incarnano meglio di un libro sulla sua vita o di mille fotografìe.

Non che questi siano gli unici oggetti a occupare gli scaffali. Nel corso dei decenni, ho messo insieme un’ampia biblioteca. Anche se parlo solo l’inglese, il francese e un italiano non molto fluente, leggo l’ebraico, il latino e il greco. Quindi i miei libri sono spesso antichi, incentrati su argomenti arcani. Quando si ha tanto tempo a disposizione quanto ne ho avuto io, la curiosità tende a seguire sentieri oscuri. In circoli eruditi, probabilmente, sarei considerato il massimo esperto di una grande varietà di argomenti di cui nessuno con una vera vita da vivere — figli, tasse, amore — si interesserebbe mai.