Tuttavia, aveva appena formulato quei pensieri quando la discussione tra i due si interruppe e solo allora il ragazzo rimpianse di non essere fuggito. La donna era tornata a occuparsi del bambino ma il suo consorte, che fino a quel momento aveva dato le spalle a Zelim, si era voltato a guardarlo oltre la spalla e, fissandolo, lo chiamò.
Lui non si mosse. Le sue gambe si erano fatte di pietra, il suo intestino d’acqua. D’improvviso, non gli importava più di avere una storia da raccontare ai suoi figli. Voleva solo che la sabbia si ammorbidisse sotto di lui, facendolo scivolare nell’oscurità, dove lo sguardo dell’uomo non avrebbe potuto trovarlo. A peggiorare le cose, la donna si era scoperta i seni e stava offrendo il capezzolo al bambino. Quei seni erano sontuosi, luccicanti e pieni.
Di nuovo, l’uomo lo chiamò con un cenno della mano, ma questa volta parlò.
“Vieni qui, pescatore”, disse. Non parlò ad alta voce ma Zelim udì quell’ordine come se gli fosse stato pronunciato nell’orecchio. “Non aver paura”, continuò l’uomo.
“Non posso…” cominciò Zelim, riferendosi alle sue gambe che certamente non gli avrebbero obbedito.
Ma prima che le parole avessero lasciato la sua bocca, i muscoli che erano stati rigidi lo stavano già portando verso colui che l’aveva chiamato. L’uomo sorrise, e nonostante la sua trepidazione, Zelim non poté fare a meno di ricambiare quel sorriso, pensando che se gli altri uomini lo stavano ancora guardando, probabilmente lo avrebbero considerato coraggioso.
Nel frattempo, la donna aveva a sua volta spostato lo sguardo su Zelim, anche se la sua espressione — a differenza di quella del marito — era tutt’altro che amichevole. Ma persino in quel momento di evidente infelicità, il volto della donna era semplicemente sfolgorante.
Zelim ora si trovava a un paio di metri dalla coppia. Si fermò, anche se l’uomo non glielo aveva ordinato.
“Come ti chiami, pescatore?”
Prima che Zelim potesse rispondere, la donna disse: “Non lo chiamerei con il nome di un pescatore”.
“È sempre meglio di niente”, ribatté il marito.
“No”, replicò la donna bruscamente. “Ha bisogno di un nome da guerriero. Oppure niente.”
“Potrebbe anche non diventare un guerriero.”
“Be’, certamente non diventerà un pescatore”, disse la donna.
L’uomo scrollò le spalle. Quell’ultimo scambio di battute aveva fatto sparire il sorriso dal suo volto; chiaramente stava esaurendo la pazienza con la sua signora.
“Allora, sentiamo come ti chiami”, disse la donna.
“Zelim.”
“Ecco”, fece lei, voltandosi a guardare il marito. “Zelim! Vuoi chiamare nostro figlio Zelim?”
L’uomo abbassò lo sguardo sul bambino. “Non mi sembra che gliene importi molto”, commentò. Poi si rivolse a Zelim. “Il tuo nome ti ha trattato bene?”
“Bene?” si stupì Zelim.
“Vuol dire se hai avuto molte donne”, rispose la moglie.
“Anche questo”, protestò il marito. “Se un nome porta buona sorte e belle donne, il ragazzo ci ringrazierà per averlo scelto.” Guardò di nuovo Zelim. “Sei stato fortunato?”
“Non particolarmente”, rispose Zelim.
“E le donne?”
“Ho sposato mia cugina.”
“Non c’è niente di male. Mio fratello ha sposato la mia sorellastra e sono la coppia più felice che abbia mai conosciuto.” Lanciò un’occhiata alla moglie che stava teneramente spostando il cuscino del suo seno per far sì che il latte continuasse a scorrere copioso. “Ma a mia moglie questo non basta. Senza offesa, amico mio. Zelim è un bel nome, davvero. Non è un nome di cui vergognarsi.”
“Allora posso andare?”
L’uomo scrollò le spalle. “Sono certo che hai… pesci da prendere… giusto?”
“Si dà il caso che io odii i pesci”, ribatté lui, stupito di aver confessato quel fatto — che non aveva mai rivelato a nessuno — in presenza di due sconosciuti. “Tutti gli uomini di Atva parlano soltanto di pesce, pesce, pesce.”
La donna alzò lo sguardo dal volto del bambino senza nome.
“Atva?” disse.
“È il nome del…”
“… del villaggio”, concluse lei. “Sì, capisco.” Provò di nuovo la parola, diverse volte, pronunciando quelle due sillabe. “At. Va. At. Vah.” Poi: “È semplice e chiaro. Mi piace. Non lo si può corrompere. Non lo si può trasformare in uno scherzo”.
A quel punto fu l’uomo a essere sorpreso. “Vuoi chiamare mio figlio come un qualche piccolo villaggio?”
“Nessuno saprà da dove è venuto il suo nome”, ribatté la donna. “Mi piace il suono, ed è questo che conta. Guarda, anche al bambino piace. Sta sorridendo.”
“Sta sorridendo perché sta succhiando dalla tua tetta, moglie”, replicò l’uomo. “Succede la stessa cosa anche a me.”
Zelim non riuscì a trattenere una risata. Trovava divertente che quelle due persone, che sotto ogni altro aspetto erano esseri straordinari, discutessero come una qualunque coppia di sposi.
“Ma se vuoi Atva”, continuò l’uomo, “non sarò io a intromettermi tra te e i tuoi desideri.”
“Meglio così”, rispose la donna.
“Vedi com’è sempre con me?” disse l’uomo rivolgendosi a Zelim. “Io le do quello che vuole e lei si rifiuta anche di ringraziarmi.” Aveva un’ombra di sorriso sulle labbra; era chiaramente felice di aver concluso quella discussione. “Be’, Zelim, almeno io voglio ringraziarti per il tuo aiuto.”
“Tutti noi ti ringraziamo”, disse la donna. “Soprattutto Atva. Ti auguriamo una vita felice e fertile.”
“Grazie”, mormorò Zelim.
“Ora”, disse il marito, “vuoi scusarci? Dobbiamo battezzare nostro figlio.”
Tre
La vita ad Atva non fu mai più la stessa dal giorno in cui la famiglia scese fino al mare.
Naturalmente Zelim fu tempestato di domande circa la natura del suo scambio di battute con l’uomo e con la donna, prima dal vecchio Kekmet e poi da quasi tutti gli altri abitanti del villaggio. Lui raccontò la verità in modo chiaro e onesto. Ma anche mentre parlava nel profondo di sé sapeva che il semplice riferire le parole che aveva scambiato con la madre e il padre del bambino non corrispondeva del tutto alla verità. In presenza di quella coppia aveva provato qualcosa di meraviglioso; sensazioni che il suo limitato vocabolario non avrebbe potuto esprimere appieno. E per la verità non voleva nemmeno esprimerle. Sentiva una sorta di possessività per quell’esperienza che faceva sì che non si sforzasse più di tanto nel raccontare l’autentica natura di quell’incontro. La sola persona alla quale avrebbe voluto dire tutto era suo padre. Era certo che il vecchio Zelim avrebbe capito; lo avrebbe aiutato con le parole, e se le parole fossero mancate a entrambi, avrebbe semplicemente annuito, dicendo: “È stato lo stesso per me a Samarcanda”, cosa che aveva sempre risposto a chiunque parlasse di qualcosa di miracoloso. È stato lo stesso per me a Samarcanda…
Forse gli abitanti di Atva sapevano che Zelim non stava raccontando tutto quello che sapeva, perché una volta che ebbero posto tutte le loro domande il giovane cominciò a notare un netto cambiamento del loro atteggiamento nei suoi confronti. Persone che da sempre erano state amichevoli con lui, ora gli lanciavano strane occhiate, o distoglievano lo sguardo fingendo di non vederlo. Altri invece manifestavano ancora più apertamente il loro fastidio per la sua presenza; soprattutto le donne. Più di una volta gli capitò di sentir pronunciare ad alta voce il suo nome in qualche conversazione, accompagnato da uno sputo, come se le stesse sillabe che lo componevano avessero un gusto amaro.