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Fu proprio il vecchio Kekmet a riferirgli quanto veniva detto sul suo conto.

“La gente dice che stai avvelenando il villaggio”, gli confidò. Zelim trovò la cosa talmente assurda che scoppiò a ridere, ma Kekmet era mortalmente serio. “C’è Baru dietro tutto questo”, continuò. “Ti odia per come gli hai spaccato quella faccia grassa che si ritrova. E così sta mettendo in giro voci su di te.”

“Che genere di voci?”

“Dice che tu e i demoni vi scambiate segnali segreti.”

“Demoni?”

“È così che li ha descritti, quell’uomo e quella donna. Come avrebbero fatto a uscire dalla foresta, altrimenti?, dice. Non potevano essere come noi e vivere tranquillamente nella foresta. È questo che dice.”

“E tutti gli credono?” Kekmet rimase in silenzio. “E tu gli credi?”

Kekmet spostò lo sguardo verso il mare. “In vita mia, ho visto un mucchio di cose strane”, rispose, la voce meno dura adesso. “Là fuori, in particolare. Cose che si muovono nell’acqua che non vorrei mai ritrovare nella mia rete. E a volte nel cielo… sagome tra le nuvole…” Scrollò le spalle. “Non so a cosa credere. Davvero non ha importanza che cos’è vero e che cosa non lo è. Baru ha detto quello che ha detto e la gente gli crede.”

“Che cosa dovrei fare?”

“Puoi restare e aspettare. Sperare che la gente se ne dimentichi. Oppure puoi andartene.”

“E dove?”

“Dovunque purché lontano da qui.” Kekmet tornò a guardare Zelim. “Se vuoi il mio parere, non c’è vita qui per te finché Baru è vivo.”

E così finì la conversazione. Kekmet, come al solito, lo salutò bruscamente, lasciando Zelim a riflettere sulle due possibilità che gli si presentavano. Nessuna gli sembrava molto allettante. Se fosse rimasto e Baru avesse continuato a rinfocolare l’ostilità nei suoi confronti, la vita per lui sarebbe diventata insopportabile. Tuttavia lasciare la sola casa che avesse mai conosciuto, avventurarsi oltre quel lembo di roccia e sabbia, quel gruppo di case rannicchiate sulla terra e viaggiare per il mondo senza una vera meta… per fare una cosa simile gli sarebbe servito un coraggio che non possedeva. Ricordava i racconti di suo padre sulle difficoltà che aveva affrontato nel suo viaggio a Samarcanda: i terrori del deserto; i banditi e i djinn. Non si sentiva pronto a fronteggiare simili minacce; aveva troppa paura.

Trascorse quasi un mese e Zelim si convinse che l’atteggiamento della gente nei suoi confronti si stava ammorbidendo. Un giorno ebbe persino l’impressione che una delle donne gli avesse rivolto un sorriso. La situazione non era tragica come aveva temuto Kekmet. Col passare del tempo, gli abitanti del villaggio avrebbero capito l’assurdità delle loro superstizioni. E nel frattempo lui avrebbe dovuto solo fare attenzione a non dare loro altre ragioni per dubitare.

Ma non aveva tenuto conto dell’intervento del fato.

Accadde così. Dal suo incontro con la coppia sulla spiaggia, Zelim era stato costretto a uscire a pesca da solo perché nessuno voleva più andare con lui. Tutto questo, inevitabilmente, aveva comportato risultati molto modesti. Non poteva lanciare la rete così lontano quando era da solo e doveva contemporaneamente governare la barca. Ma quel giorno, la fortuna gli sorrise nonostante tutto. La sua rete traboccava di pesci, e lui tornò a riva sentendosi piuttosto soddisfatto. Diversi altri pescatori stavano già scaricando i frutti delle loro fatiche, e così un buon numero di abitanti del villaggio si era radunato nei pressi della riva. E, inevitabilmente, molti occhi erano fissi su di lui, mentre scaricava la rete dalla barca per studiarne il contenuto.

C’erano aragoste, pesci gatto, persino un piccolo storione. Ma sul fondo della rete, intento ad agitarsi come se possedesse più vita di qualunque altra creatura naturale, c’era un pesce che Zelim non aveva mai visto prima. Era più grande degli altri pesci che aveva preso, e i suoi fianchi non erano verdi o argentei ma di un rosso cupo. La creatura attirò subito l’attenzione generale. Una delle donne gridò che era un demone-pesce. “Guardate come ci guarda”, urlò la donna con voce stridula. “Oh, Dio del cielo, salvaci! Guardate come ci guarda!”

Zelim non disse niente: era turbato dalla vista di quel pesce quasi quanto lo erano le donne; sembrava davvero che li guardasse dritto negli occhi come per dire: morirete tutti come me, prima o poi, senza fiato.

Il panico della donna dilagò. I bambini cominciarono a piangere e vennero portati via, e fu detto loro di non guardare il demone, e di non guardare Zelim che aveva portato a riva quella cosa.

“Non è colpa mia”, protestò Zelim. “L’ho solo trovato nella mia rete.”

“Ma perché si è infilato nella tua rete?” ribatté Baru, facendosi largo tra i presenti e puntando un indice grasso su Zelim. “Te lo dico io perché. Perché voleva stare con te!”

“Stare con me?” disse Zelim. Quell’idea era ridicola, e così scoppiò in una risata. Ma fu l’unico a ridere. Tutti gli altri guardavano o il suo accusatore o la creatura, che era ancora viva anche se gli altri pesci presi nella rete erano ormai morti. “E soltanto un pesce!” esclamò.

“Io certamente non ne ho mai visto uno simile”, disse Baru. Scrutò la folla che si stava radunando in attesa di un confronto. “Dov’è Kekmet?”

“Sono qui”, rispose il vecchio. Fino a quel momento era rimasto in disparte e Baru gli fece cenno di avvicinarsi. Kekmet lo raggiunse, riluttante. Le intenzioni di Baru erano chiare.

“Da quanto tempo peschi in queste acque?” domandò Baru a Kekmet.

“Da tutta la vita”, rispose il vecchio. “E prima che tu me lo chieda, la risposta è no, non ho mai visto un pesce come questo.” Alzò gli occhi su Zelim. “Ma questo non significa che sia un demone-pesce, Baru. Significa solo… che è la prima volta che ne vediamo uno.”

L’espressione di Baru si fece ancora più maliziosa. “Tu lo mangeresti?” domandò.

“E questo cosa c’entra?” s’intromise Zelim.

“Baru non sta parlando con te”, intervenne una delle donne. Era una creatura amara, quella donna, il volto lungo e pallido quanto quello di Baru era grasso e arrossato. “Rispondi, Kekmet. Ti metteresti in pancia quella cosa?” Guardò il pesce che, per qualche sfortunato caso, proprio in quell’istante ruotò un occhio bronzeo come per ricambiare il suo sguardo. Lei rabbrividì e di punto in bianco afferrò il bastone di Kekmet e cominciò a percuotere la creatura, non una o due, ma venti, trenta volte, con tanta violenza da spappolare la carne. Quando ebbe finito, gettò il bastone sulla sabbia e guardò Kekmet arricciando le labbra e scoprendo i denti marci. “Cosa ne dici?” chiese. “Te lo mangeresti, adesso?”

Kekmet scosse il capo. “Credi quello che vuoi. Qualsiasi cosa dica, non cambieresti idea. Forse hai ragione, Baru. Forse siamo tutti maledetti. Ma sono troppo vecchio e non me ne importa niente.”

Dopodiché, allungò una mano e l’appoggiò sulla spalla di uno dei bambini per sostenersi ora che aveva perso il suo bastone. E guidando il bambino davanti a sé, si allontanò dalla folla zoppicando.

“Hai fatto tutto il male che potevi fare”, disse Baru a Zelim. “Ora vattene.”

Zelim non protestò. A cosa sarebbe servito? Tornò alla barca, prese il suo coltello e andò a casa. Gli ci volle meno di mezz’ora per radunare tutto ciò che possedeva. Quando uscì in strada, la trovò deserta; i suoi vicini — forse per vergogna o forse per paura — si tenevano nascosti. Ma mentre si allontanava, il giovane sentì su di sé i loro occhi; e quasi desiderò che le accuse di Baru fossero vere e di essere capace di maledire gli abitanti del villaggio, facendoli svegliare il giorno dopo con gli occhi ciechi e rattrappiti nelle orbite.