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Quattro

Lasciate che vi racconti quello che successe a Zelim dopo che ebbe lasciato Atva.

Deciso a provare — se non altro a se stesso — che la foresta da cui era emersa la famiglia non era un luogo di cui si doveva aver paura, si inoltrò tra gli alberi. L’aria era umida e faceva freddo, e più di una volta il ragazzo prese in considerazione l’idea di battere in ritirata verso il chiarore della spiaggia, ma dopo qualche tempo anche quei pensieri, così come la paura, lo abbandonarono. In quel luogo non c’era niente che avrebbe potuto fare del male alla sua anima. Quando degli escrementi cadevano attorno o su di lui, come capitava di tanto in tanto, a produrli non era una qualche belva divoratrice di bambini come gli era stato insegnato fin da piccolo, ma soltanto un uccello. Quando qualcosa si muoveva nel fitto della vegetazione, e Zelim riusciva a scorgere gli occhi della creatura, non erano quelli di un djinn nomade, ma di un cinghiale o di un cane selvatico.

La sua cautela man mano evaporò insieme alla sua paura, e con un certa sorpresa si rese conto di essere molto di buon umore. Cominciò a canticchiare tra sé, non le canzoni che intonavano i pescatori quando erano in barca insieme, inevitabilmente oscene o tragiche, ma qualche motivetto della sua infanzia, che gli riportava alla mente ricordi piacevoli.

Per nutrirsi, mangiava bacche e beveva acqua dai piccoli ruscelli che si snodavano tra gli alberi. Un paio di volte, tra la vegetazione trovò dei nidi e riuscì a cenare con uova crude. Solo la notte, quando era costretto a riposarsi (dopo il tramonto gli era impossibile sapere in quale direzione stesse viaggiando), l’ansia si impadroniva di lui. Non poteva accendere un fuoco e così era obbligato a sedere nella vegetazione densa di ombre fino all’alba, pregando di non essere fiutato da un orso o da un branco di lupi affamati.

Gli ci vollero quattro giorni e quattro notti per raggiungere l’altro capo della foresta. Quando emerse dagli alberi, era talmente abituato alla semioscurità che il chiarore del sole gli fece venire il mal di testa. Si sdraiò sull’erba al limitare del bosco e si addormentò nella brezza tiepida pensando che sarebbe ripartito quando il sole fosse stato meno accecante. Dormì fino al tramonto, quando fu svegliato da un coro di voci in preghiera. Si mise a sedere. Non lontano da dove si trovava, c’era una formazione di rocce simili alla spina dorsale di un gigante morto, e sullo stretto sentiero che si snodava tra i massi c’era un piccolo gruppo di monaci che recitavano preghiere mentre camminavano. Alcuni portavano lampade che illuminavano i loro volti: barbe scarmigliate, sopracciglia folte, crani pelati ustionati dal sole; quelli erano uomini che avevano sofferto per la loro fede, pensò Zelim.

Si alzò e zoppicò in direzione dei monaci, chiamandoli mentre si avvicinava per non spaventarli con la sua improvvisa apparizione. Vedendolo, gli uomini si fermarono; alcuni di loro si scambiarono sguardi sospettosi.

“Mi sono perso e sono affamato”, disse loro Zelim. “Avete del pane, o almeno potete dirmi dove posso trovare un letto per la notte?”

Il capo, un uomo corpulento, passò la lampada a uno dei suoi compagni e fece cenno a Zelim di avvicinarsi.

“Che cosa ci fai qui?” domandò il monaco.

“Ho attraversato la foresta”, spiegò il ragazzo.

“Non sai che questa è una strada pericolosa?” disse il monaco. Il suo alito era il più pestilenziale che Zelim avesse mai sentito. “Ci sono ladri su questa strada”, continuò. “Molta gente è stata aggredita e assassinata, qui.” All’improvviso il monaco allungò una mano e afferrò il braccio di Zelim trascinandolo verso di sé. Contemporaneamente estrasse un lungo coltello e lo puntò alla gola del ragazzo. “Chiamali!

Lui non aveva idea di cosa stesse parlando. “Chi dovrei chiamare?”

“Il resto della tua banda! Di’ loro che ti taglierò la gola se provano ad attaccarci.”

“No, non hai capito. Non sono un bandito.”

“Zitto!” gli intimò il monaco, premendogli la lama nella carne così a fondo da far sgorgare il sangue. “Chiamali!

“Sono da solo”, protestò Zelim. “Lo giuro! Lo giuro sugli occhi di mia madre, non sono un bandito.”

“Tagliagli la gola, Nazar”, disse un altro monaco.

“Ti prego, non farlo”, lo implorò Zelim. “Sono un uomo innocente.”

“Non ci sono più uomini innocenti”, disse Nazar. “Questi sono gli ultimi giorni del mondo, e chiunque sia vivo è corrotto.”

Zelim pensò che quella fosse una dichiarazione filosofica, il genere di concetto che solo un monaco poteva capire. “Se lo dici tu”, replicò. “Io che cosa ne so? Ma ti assicuro che non sono un bandito. Sono un pescatore.”

“Sei molto lontano dal mare”, osservò il piccolo monaco a cui Nazar aveva passato la lampada. Si sporse in avanti per scrutare Zelim, sollevando leggermente la luce. “Come mai hai abbandonato i tuoi pesci?”

“Non piacevo a nessuno”, rispose Zelim. Gli sembrava meglio essere onesti.

“E perché?”

Zelim scrollò le spalle. Non troppo onesti, pensò. “Non piacevo a nessuno e basta”, rispose.

L’uomo lo studiò ancora per un attimo, poi disse al capo: “Sai, Nazar, credo che stia dicendo la verità”. Zelim sentì la lama allontanarsi leggermente dalla sua carne. “Pensavamo che fossi uno dei ragazzi di quei banditi”, spiegò il monaco, “mandato sulla nostra strada per distrarci.”

Di nuovo, Zelim ebbe la sensazione di non capire del tutto quanto gli veniva detto. “E così… i banditi vi avrebbero attaccato mentre parlavate con me?”

“Non mentre parlavamo”, disse Nazar. Il coltello scivolò dal collo di Zelim al centro del suo petto e lì gli tagliò la camicia già logora. L’altra mano del monaco scivolò attraverso lo squarcio, mentre la lama continuava il suo viaggio verso sud fino a raggiungere il davanti dei pantaloni.

“È un po’ troppo vecchio per me, Nazar”, commentò il compagno del monaco e, allontanandosi da Zelim, andò a sedersi tra le rocce.

“Sono da solo, allora?” volle sapere Nazar.

In risposta alla sua domanda, tre uomini piombarono su Zelim come cani affamati. Fu sbattuto a terra, dove i vestiti gli vennero strappati di dosso e i monaci cominciarono a seviziarlo, ignorando le sue grida e le sue implorazioni. Lo costrinsero a leccare i loro piedi e i loro ani, e a succhiare le loro barbe e i loro capezzoli e i loro membri dal glande color porpora. Lo tennero giù, mentre uno dopo l’altro lo prendevano, incuranti del fatto che continuasse a sanguinare e a sanguinare.

Nel frattempo, gli altri monaci che si erano ritirati tra le rocce leggevano o bevevano vino o restavano sdraiati a guardare le stelle. Uno di loro, addirittura, pregava. Zelim vide tutto questo perché evitò deliberatamente di guardare i suoi violentatori, deciso a negare loro la vista del terrore nei suoi occhi, e ugualmente deciso a non piangere. Invece guardò gli altri e attese che gli uomini avessero finito.

Era convinto che alla fine lo avrebbero ucciso, ma se non altro questo gli venne risparmiato. Invece i monaci passarono con lui la notte, a turno, usandolo per assecondare ogni loro voglia e poi, poco prima dell’alba, lo lasciarono tra le rocce e se ne andarono per la loro strada.

Il sole stava sorgendo, ma Zelim tenne gli occhi chiusi per non vederlo. Non voleva vedere mai più la luce. Era troppo pieno di vergogna. Ma, verso mezzogiorno, il calore lo spinse a mettersi in ginocchio e a trascinarsi all’ombra delle rocce. Là, con sua grande sorpresa, scoprì che uno dei monaci — forse quello che aveva sentito pregare — aveva lasciato un otre di vino, del pane e della frutta secca. Non era un caso, ne era certo. Quell’uomo li aveva lasciati per lui.