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Solo allora, il pescatore si abbandonò alle lacrime, non tanto per le sue agonie quanto per il fatto che vi fosse stato qualcuno che si era interessato a lui abbastanza da compiere un atto di gentilezza.

Mangiò e si dissetò. Forse fu la forza del vino ma, una volta che ebbe finito, si sentì decisamente rinfrancato e, coprendo la propria nudità come meglio poté, abbandonò la sua nicchia tra le rocce e si incamminò lungo il sentiero. Era ancora dolorante, ma l’emorragia era cessata, e quando scese la notte non si fermò ma continuò a camminare sotto le stelle. A un certo punto lungo la strada, una cagna dai fianchi ossuti cominciò a seguirlo, in cerca forse del conforto della compagnia umana. Zelim non la scacciò; anche lui voleva compagnia. Dopo un po’ l’animale trovò il coraggio sufficiente per camminargli accanto, e accorgendosi che il suo nuovo padrone non aveva intenzione di scacciarla a calci, ben presto cominciò a trotterellare come se fossero stati insieme fin dalla nascita.

L’arrivo nella sua vita della cagna affamata segnò un netto cambiamento delle fortune di Zelim. Qualche ora dopo, raggiunse un villaggio molto ma molto più grande di Atva, dove trovò una grande folla impegnata in quella che sembrava una sorta di festeggiamento. Le strade erano piene di gente che gridava e faceva baldoria.

“È un giorno santo?” domandò Zelim a un giovane che beveva seduto davanti alla porta di una casa.

L’altro scoppiò a ridere. “No”, disse, “non è un giorno santo.”

“Be’, allora perché sono tutti così felici?”

“Perché faremo delle impiccagioni”, rispose il ragazzo con un pigro sogghigno.

“Oh… capisco.”

“Vuoi venire a vedere?”

“Non particolarmente.”

“Potremmo trovare qualcosa da mangiare”, fece presente il ragazzo. “E dal tuo aspetto direi che ne hai bisogno.” Squadrò Zelim dalla testa ai piedi. “In realtà sembra che tu abbia bisogno di un sacco di cose. Di un paio di pantaloni, per esempio. Cosa ti è capitato?”

“Non ho voglia di parlarne.”

“Una brutta avventura, eh? Be’, allora dovresti proprio venire all’impiccagione. Mio padre è già lì, perché dice che è bello vedere che c’è gente più sfortunata di noi. Fa bene all’anima, secondo lui. Ti riempie di gratitudine.”

Zelim pensò che c’era della saggezza in quelle parole, così lui e il suo cane accompagnarono il ragazzo attraverso il villaggio fino alla piazza del mercato. Fu più difficile del previsto farsi largo tra la folla e quando arrivarono abbastanza vicino da vedere qualcosa, tutti gli uomini destinati alla forca tranne uno erano già stati impiccati. Riconobbe all’istante i prigionieri. Le barbe scarmigliate, le teste calve scottate dal sole. I suoi aguzzini. Tutti loro, chiaramente, avevano sofferto in modo orribile prima che il cappio li privasse della vita. A tre monaci erano state amputate le mani; uno era stato accecato; ad altri, a giudicare dal sangue che incrostava i loro vestiti all’altezza dell’inguine, erano stati tagliati i genitali.

Tra questi ultimi c’era Nazar, il capo del gruppo, l’unico ancora vivo. Non riusciva a stare in piedi, e così due uomini del villaggio lo sostennero mentre un terzo gli faceva scivolare il cappio attorno la collo. I suoi denti marci erano spezzati e il suo corpo era coperto dalla testa ai piedi di lividi ed escoriazioni. La folla era selvaggiamente eccitata dallo spettacolo delle agonie di quell’uomo. A ogni calcio e a ogni gemito, applaudivano e gridavano elencando i suoi crimini: “Assassino! Ladro! Sodomita!”

“È tutto questo e molto di più, secondo mio padre”, disse il ragazzo a Zelim. “È così malvagio che quando morirà potremmo anche vedere il diavolo salire dall’inferno per venire a prendersi la sua anima quando gli uscirà dalla bocca!”

Zelim rabbrividì nauseato a quel pensiero. Se il padre del ragazzo aveva ragione, il monaco ladro e sodomita era un figlio del diavolo e forse gli aveva passato la sua malvagità attraverso lo sputo e il seme. Oh, che pensiero orrendo, essere in qualche modo la sposa di quel terribile uomo, e venire trascinato nella sua stessa dimora infernale quando fosse venuta la sua ora.

Il cappio ora era stretto attorno al collo di Nazar, e la corda fu tirata abbastanza da sollevarlo come un pupazzo. Gli uomini che lo avevano sostenuto si allontanarono per aiutare a tirare la corda. Ma un secondo prima che la corda si serrasse attorno alla sua trachea, Nazar incominciò a parlare; no, non a parlare; a urlare, usando ogni frammento di forza che gli fosse rimasta nel corpo massacrato.

Dio vi coprirà tutti di merda!” gridò. La folla prese a inveire contro di lui. Alcuni gli lanciarono pietre. Ma lui continuò a gridare: “Ci ha lasciato tra le mani mille anime innocenti! Non gliene fregava niente di quello che gli facevamo! Quindi fatemi quello che volete”.

La corda gli serrò la gola e Nazar venne sollevato sulla punta dei piedi. Eppure continuò a urlare, sangue e sputo mischiati alle sue parole.

… non c’è nessun inferno, non c’è nessun paradiso! Non c’è nessun…

Non riuscì ad andare oltre. Ma Zelim sapeva qual era l’ultima parola che il monaco avrebbe voluto pronunciare. Era Dio. Nazar avrebbe voluto gridare: non c’è nessun Dio.

La folla era in estasi attorno a lui; tutti urlavano e ridevano e sputavano sull’impiccato che si agitava dondolando dall’estremità della corda. Il suo tormento non durò a lungo. Il corpo torturato del monaco cedette quasi subito, con grande delusione della folla, e rimase a oscillare dal cappio come se la grazia della vita non lo avesse mai toccato. Il ragazzo accanto a Zelim era decisamente deluso.

“Io non ho visto Satana, e tu?”

Zelim scosse la testa, ma in fondo a sé si disse: Forse l’ho visto. Forse il Diavolo è solo un uomo come me. Forse è molti uomini; tutti gli uomini, forse.

Fece scorrere lo sguardo sulla schiera di monaci impiccati, cercando quello che aveva pregato mentre gli altri lo violentavano, quello che secondo Zelim gli aveva lasciato il vino, il pane e la frutta. Forse proprio lui era riuscito a persuadere i suoi compagni a risparmiare la loro vittima; Zelim non lo avrebbe mai saputo. Ma c’era un particolare strano. Adesso che erano morti, quegli uomini gli sembravano tutti uguali. Ciò che li aveva distinti l’uno dall’altro sembrava scomparso, e le loro facce erano deserte, come case abbandonate. Non riuscì a riconoscere il monaco che aveva pregato tra le rocce, né quello che era stato particolarmente crudele con lui. Quello che lo aveva morso come un animale; quello che gli aveva pisciato in faccia per svegliarlo quando era quasi svenuto; quello che lo aveva chiamato con un nome di donna mentre lo possedeva. Alla fine, erano tutti assolutamente indistinguibili.

“Ora li faranno a pezzi e infilzeranno le loro teste sulle picche”, spiegò il ragazzo, “come avvertimento per i banditi.”

“E per gli uomini di fede”, aggiunse Zelim.

“Non erano uomini di fede”, ribatté il giovane.

Il suo commento fu udito da una donna poco lontano da loro. “Oh sì, lo erano”, disse. “Il loro capo, Nazar, era stato un monaco a Samarcanda. Aveva studiato su alcuni libri che non avrebbe mai dovuto aprire, ed è per questo che era diventato quello che era diventato.”

“Che genere di libri?” le domandò Zelim.

Lei gli rivolse uno sguardo spaventato. “È meglio non saperlo”, rispose.