“Be’, devo trovare mio padre”, disse il giovane a Zelim. “Spero che ti vada tutto bene. Che Dio ti aiuti.”
“E che aiuti anche te”, gli augurò Zelim.
Cinque
1
Zelim aveva visto abbastanza; più che abbastanza. La folla era in preda alla frenesia mentre i corpi venivano preparati per la decapitazione; i bambini venivano sollevati sulle spalle dei genitori perché potessero vedere meglio. Lui trovò quello spettacolo disgustoso. Voltandosi, si chinò, prese tra le braccia il suo cane pieno di pulci e incominciò ad allontanarsi dalla piazza del mercato.
Alle sue spalle, qualcuno gli gridò: “Stai male alla vista del sangue?”
Si girò e vide che a parlare era stata la donna che gli aveva detto dei libri profani di Samarcanda.
“Niente affatto”, rispose Zelim amaramente, pensando che quella donna stesse mettendo in dubbio la sua virilità. “Sono solo stufo. Ormai sono morti. Non possono più soffrire.”
“Hai ragione”, disse la donna scrollando le spalle. Indossava abiti da vedova anche se era ancora molto giovane; doveva avere solo un paio d’anni più di Zelim. “Siamo solo noi che soffriamo”, continuò. “Solo noi che siamo rimasti vivi.”
Lui capiva perfettamente la verità delle parole della donna, come non avrebbe potuto capirle prima della sua terribile avventura sulla strada. Se non altro, i monaci gli avevano lasciato questo: la comprensione della disperazione altrui.
“Una volta pensavo che ci fossero ragioni…” mormorò.
La folla stava ruggendo. Si voltò a guardare. Una testa veniva tenuta in alto, coperta di sangue che luccicava sotto il sole.
“Che cos’hai detto?” gli chiese la donna, avvicinandosi per sentirlo meglio al di sopra del frastuono.
“Non ha importanza”, disse lui.
“Ti prego, dimmelo”, replicò lei, “vorrei saperlo.”
Zelim scrollò le spalle. Aveva voglia di piangere, ma quale uomo avrebbe potuto piangere apertamente in un posto come quello?
“Perché non vieni con me?” propose la donna. “Tutti i miei vicini sono qui, a guardare questa sciocchezza. Se vieni con me, nessuno ci vedrà. Nessuno potrà spettegolare su di noi.”
Zelim soppesò l’offerta della donna per qualche istante, e alla fine disse: “Però dovrò portare anche il mio cane”.
2
Rimase per sei anni. Naturalmente, dopo un paio di settimane, i vicini cominciarono a spettegolare, ma non era come ad Atva; la gente non pensava solo a impicciarsi degli affari degli altri. Zelim visse felicemente con la vedova, Passak, che imparò ad amare. Lei era una donna molto pratica, ma quando la porta d’ingresso e gli scuri erano chiusi, anche molto appassionata. Questo era vero in particolare, per qualche misteriosa ragione, quando il vento del deserto cominciava a soffiare; un vento caldo che portava un carico di sabbia ruvida. In quelle occasioni, la vedova era senza vergogna; non c’era niente che non fosse disposta a fare per il loro piacere reciproco, e Zelim l’amava ancora di più per questo.
Ma i ricordi di Atva e della gloriosa famiglia, che era scesa fino al mare in quel giorno lontano, non lo abbandonavano mai. Così come il ricordo delle sevizie subite o gli strani pensieri che lo avevano attraversato quando aveva visto Nazar e la sua banda penzolare dalla forca. Tutte quelle esperienze rimasero nel suo cuore come uno stufato lasciato a sobbollire, e col passare degli anni divennero ancora più saporite e ancora più nutrienti.
Poi, dopo sei anni e molti giorni e molte notti felici con Passak, Zelim si rese conto che per lui era arrivato il momento di sedersi e mangiare quello stufato.
Accadde durante una delle tempeste di sabbia che venivano dal deserto. Lui e Passak avevano fatto l’amore non una, ma tre volte. Ma invece di addormentarsi sfinito, come aveva fatto Passak, Zelim cominciò a sentire una strana irritazione dietro gli occhi, quasi che il vento stesse soffiando nel suo cranio per rigirare il pasto un’ultima volta prima di servirlo.
In un angolo della stanza, il cane — che ormai era vecchio e cieco — mugolò a disagio.
“Shhh, ragazza mia”, mormorò. Non voleva che Passak si svegliasse, non prima di aver avuto il tempo di dare un senso ai sentimenti che lo stavano ossessionando.
Si prese la testa tra le mani. Che cosa ne sarebbe stato di lui? Aveva vissuto una vita più piena di quella che avrebbe vissuto se fosse rimasto ad Atva, eppure niente aveva senso. Almeno ad Atva, le cose avevano avuto un ritmo essenziale. Un bambino nasceva, diventava forte abbastanza per fare il pescatore, diventava un pescatore, e poi s’indeboliva di nuovo, fino a tornare fragile come un bambino e alla fine moriva, confortato dal fatto che anche dopo la sua morte sarebbero nati altri pescatori. Ma la vita di Zelim era priva di simili certezze. Era inciampato da una confusione all’altra, trovando agonia dove si sarebbe aspettato di trovare conforto, e piacere dove si sarebbe aspettato di trovare sofferenza. Aveva visto il Diavolo in forma umana, e i volti di spiriti divini in sagome molto simili. La vita non era neanche lontanamente come si era aspettato che fosse.
E poi pensò: Devo raccontare quello che so. È per questo che sono qui; devo narrare alla gente ciò che ho visto e sentito, in modo che il mio dolore non debba ripetersi mai più. In modo che coloro che mi seguiranno siano come miei figli, perché li ho aiutati a prendere forma e li ho resi forti.
Si alzò, andò dalla sua dolce Passak e si inginocchiò accanto al loro stretto letto. La baciò su una guancia. Ma lei era già sveglia, e lo era già da un po’.
“Se te ne andrai sarò così triste”, gli disse. Poi, dopo una pausa: “Ma sapevo che un giorno sarebbe successo. Sono sorpresa che tu sia rimasto così a lungo”.
“Come sapevi?”
“Stavi parlando ad alta voce, non te ne sei reso conto? Lo fai continuamente.” Un’unica lacrima le comparve in un angolo dell’occhio, ma non c’era dolore nella sua voce. “Sei un uomo meraviglioso, Zelim. Non penso che tu sappia veramente quanto sei meraviglioso. E hai visto cose… Forse erano solo nella tua testa, forse erano reali, non lo so… che devi raccontare alla gente.” Adesso era lui a piangere, sentendola parlare in quel modo, senza alcuna traccia di rimprovero nella voce. “Ho passato anni stupendi con te, amore mio. Sono stata felice come non avrei mai pensato di poter essere. E sarebbe ingiusto da parte mia chiederti altra gioia, quando ho già avuto così tanto.” Sollevò leggermente la testa e lo baciò. “Ti amerò di più se te ne andrai in fretta.”
Lui prese a singhiozzare. Tutti i pensieri che lo avevano assorbito fino a pochi minuti prima ora gli sembravano vuoti. Come aveva potuto pensare di lasciarla?
“Non posso andarmene”, disse. “Non so che cosa mi abbia messo in testa questa idea.”
“Sì che puoi”, ribatté lei. “E se non vai ora, andrai comunque prima o poi. Quindi, va’.”
Lui si asciugò le lacrime. “No. Non vado da nessuna parte.”
Così Zelim rimase. Vennero le tempeste, mese dopo mese, e lui e la vedova si amarono appassionatamente nella piccola casa, mentre il fuoco mormorava nel camino e il vento chiacchierava sopra il tetto. Ma ora la felicità di Zelim era rovinata; e così quella della sua compagna. Lui era risentito nei suoi confronti per averlo tenuto con sé, anche se Passak sarebbe stata disposta a lasciarlo andare. E di conseguenza lei cominciò ad amarlo sempre meno perché non aveva avuto il coraggio di andarsene, e perché restando stava uccidendo la cosa più dolce che avesse mai conosciuto, l’amore tra di loro.
Alla fine tutta quella tristezza la uccise. Per quanto strano possa sembrare, quella donna coraggiosa che era sopravvissuta al dolore della perdita di un marito, non riuscì a sopravvivere alla morte del suo amore per l’uomo che era rimasto al suo fianco. Lui la seppellì e, una settimana più tardi, andò per la sua strada.