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Non si fermò mai più. Aveva conosciuto tutto ciò che c’era da sapere sulla vita domestica; d’ora in avanti sarebbe stato un nomade. Ma lo stufato che aveva bollito dentro di lui per tanto tempo era ancora buono. Forse più pungente per quegli ultimi tristi mesi trascorsi con Passak. Ora, quando finalmente iniziò l’opera della sua vita e prese a insegnare narrando la sua vita, alle sue esperienze aggiunse anche l’amarezza del loro amore: quella donna alla quale una volta aveva promesso eterna devozione — dicendole che ciò che provava per lei era immortale — ben presto cominciò a sembrargli un ricordo lontano come la sua giovinezza ad Atva. L’amore — o almeno il genere di amore che condividono un uomo e una donna — non era qualcosa di eterno. Né era eterno il suo opposto. Proprio come le cicatrici che Nazar e i suoi uomini gli avevano lasciato erano sbiadite nel corso degli anni, così si era affievolito l’odio che Zelim aveva provato per loro.

E questo non significa che fosse un uomo privo di sentimenti; tutt’altro. Nei trentun anni che gli restavano da vivere, sarebbe stato conosciuto come un profeta, come un narratore e come un uomo di rara passione. Ma quella passione non somigliava a quella che prova la maggior parte di noi. Divenne, a dispetto delle sue umili origini, una creatura di emozioni sottili ed elevate. Le parabole che narrava non avrebbero sfigurato accanto a quelle di Cristo per la loro semplicità, ma, a differenza delle chiare e buone lezioni impartite da Gesù, Zelim comunicava con le sue parole una visione ben più ambigua; una visione in cui Dio e il Diavolo erano eternamente impegnati in un gioco di maschere.

Potranno esserci occasioni perché vi racconti alcune delle sue parabole nel corso di questa storia, ma per ora mi limiterò a dirvi come morì. Accadde, naturalmente, a Samarcanda.

Sei

Prima di tutto, lasciate che vi parli della città. Dal momento che il suo splendore aveva dato vita a tante delle storie che Zelim aveva ascoltato da bambino. Colui che aveva raccontato quelle storie, il vecchio Zelim, non fu l’unico a innamorarsi di Samarcanda, una città che non aveva mai visto. A quei tempi era un luogo quasi mitico. Una città, si diceva, di una bellezza tale da spezzare il cuore, dove i pensieri e le forme e le azioni inimmaginabili in qualunque altro luogo della terra erano all’ordine del giorno. Non c’erano donne come le donne di Samarcanda, né ragazzi come quelli di Samarcanda; né c’erano donne e ragazzi così liberi con la loro carne come quelli delle strade profumate di Samarcanda. Non c’erano potenti come i potenti di Samarcanda, né moschee, né palazzi, né tesori come quelli di Samarcanda.

E poi — come se tutte quelle glorie non fossero state sufficienti — c’era il fatto miracoloso dell’esistenza stessa della città, quando tutto attorno a essa non c’erano altro che desolazione e terre selvagge. I mercanti, che l’attraversavano sulla Vìa della Seta diretti in Turkistan o in Cina, o che portavano spezie dall’India o sale dalle steppe, percorrevano deserti immensi e ostili e pianure grigie di ghiaccio prima di poter scorgere il fiume Zarafshan e le fertili terre su cui sorgevano le torri e i minareti di Samarcanda come fiori che non avrebbero potuto sbocciare in nessun altro giardino. La loro gioia nel lasciare la desolazione che avevano affrontato li portava a scrivere canzoni e poesie sulla città (decantandone le lodi forse anche in modo eccessivo), e quelle canzoni e quelle poesie a loro volta attiravano altri mercanti, altre bellissime donne, altri costruttori di torri, così che con il passare delle generazioni Samarcanda raggiunse la sua stessa reputazione leggendaria, al punto che l’adulazione di quelle canzoni e di quelle poesie finì per non renderle più giustizia.

Non era, lasciatemi dire, semplicemente un luogo di eccessi dei sensi. Era anche un tempio del sapere, dove studiavano filosofi e libri venivano scritti e letti, e dove si disquisiva incessantemente, tra un bicchiere di tè e l’altro, di teorie sull’inizio del mondo e su quella che sarebbe stata la sua fine. In breve, era una città del tutto miracolosa.

Per tre volte in vita sua, Zelim si unì a una carovana sulla Vìa della Seta e raggiunse Samarcanda. La prima volta fu un paio d’anni dopo la morte di Passak, e stava viaggiando a piedi dal momento che non aveva il denaro sufficiente a comprare un animale forte abbastanza da sopravvivere al viaggio. Fu un tragitto che mise alla prova i limiti della sua fame di vedere quel luogo: quando cominciò a intravedere le meravigliose torri della città, era a tal punto esausto — i piedi sanguinanti, il corpo scosso da tremori, gli occhi iniettati di sangue per i lunghi giorni passati a camminare nella polvere di qualcun altro — che semplicemente si lasciò cadere sull’erba morbida accanto al fiume e dormì per il resto di quel giorno, là, fuori dalle mura della città, come privo di sensi.

Si risvegliò al tramonto, si lavò la sabbia dagli occhi e alzò lo sguardo. Il cielo era traboccante di colori; delicate schiere di nuvole color ambra verso ovest, e sospese tra il blu e il viola verso est, e stormi di uccelli che volavano attorno ai minareti illuminati facendo ritorno ai loro rami. Zelim si alzò in piedi ed entrò in città, proprio mentre i fuochi attorno alle mura venivano accesi, alimentati da varietà di legni così profumati che l’aria stessa aveva un aroma sacro.

All’interno, riuscì a dimenticare in un solo istante tutta la sofferenza che aveva dovuto sopportare per arrivare lì. Samarcanda era tutto ciò che suo padre gli aveva raccontato e molto di più. Anche se Zelim era poco più che un mendicante, ben presto si rese conto che c’era un mercato per le storie che aveva da narrare. E lui aveva molto da raccontare. Alla gente piaceva ascoltarlo, parlare del battesimo di Atva e della foresta e di Nazar e del suo destino. Che credessero o meno alla veridicità di quei racconti non aveva alcuna importanza: la gente gli dava denaro, cibo e amicizia (e, nel caso di alcune affascinanti signore, anche notti d’amore) in cambio delle sue storie. Zelim cominciò ad ampliare il suo repertorio: a improvvisare, ad arricchire e a inventare. Creò nuove storie sulla famiglia scesa fino al mare, e dal momento che la gente sembrava apprezzare un tocco di filosofia intrecciato all’intrattenimento, introdusse le sue teorie sul destino, le idee che aveva coltivato nel corso dei suoi anni con Passak.

Quando lasciò Samarcanda dopo quella prima visita, che durò un anno e mezzo, Zelim aveva una certa reputazione, non solo di abile narratore ma anche di saggio. E ora, mentre viaggiava, aveva un nuovo argomento: Samarcanda.

Là, raccontava, le più alte aspirazioni dell’animo umano e i più bassi appetiti della carne erano talmente vicini che talvolta era impossibile distinguerli. Era un punto di vista che le persone amavano ascoltare, perché tanto spesso si rivelava vero nelle loro stesse vite, ma così raramente riuscivano ad ammetterlo. E la reputazione di Zelim crebbe.

Fece il suo secondo viaggio a Samarcanda sul dorso di un cammello. Aveva un aiutante di quindici anni che gli preparava da mangiare e si occupava delle sue necessità, un giovane che Zelim aveva accettato come apprendista perché anche lui voleva diventare narratore. Quando arrivarono in città, per Zelim fu inevitabilmente una delusione. Si sentì come un uomo che, tornato tra le braccia di un grande amore, si rende conto che i suoi ricordi erano più dolci della realtà. Ma anche quell’esperienza, dopo appena una settimana, divenne materiale per una nuova parabola.

E comunque quella visita non fu avara di soddisfazioni: riunioni con amici che aveva conosciuto durante la sua prima permanenza in città; inviti in case sontuose di uomini che non più di qualche anno prima lo avrebbero considerato solo un pescatore ignorante e che ora si dichiaravano onorati della sua compagnia. E la soddisfazione più grande di tutte fu la scoperta che lì, in quella città, esisteva un piccolo gruppo di giovani studenti che analizzavano la sua vita e le sue parabole come se fosse stato un uomo di grande importanza. Chi non sarebbe stato lusingato da una simile scoperta? Zelim trascorse molti giorni e molte notti a parlare con loro e a rispondere alle loro domande il più onestamente possibile.