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Una domanda in particolare continuò ad aggirarglisi per la mente quando lasciò la città. “Pensi che rivedrai mai le persone che hai incontrato in riva al mare?” gli aveva chiesto un giovane studente.

“Non credo”, aveva risposto al ragazzo. “Non ero niente per loro.”

“Ma per il bambino forse…” aveva replicato lo studente.

“Per il bambino?” aveva detto Zelim. “Dubito che si sia accorto di me. Era molto più interessato al latte di sua madre che a me.”

Lo studente aveva insistito. “Tu insegni nelle tue storie che le cose tornano sempre. In uno dei tuoi racconti parli della Ruota delle Stelle. Forse sarà lo stesso con quelle persone. Saranno come le stelle. Scompariranno dalla vista…”

“… solo per sorgere di nuovo”, aveva concluso Zelim.

Lo studente aveva sorriso raggiante nel sentire i suoi pensieri completati dalle parole del maestro. “Sì. Per sorgere di nuovo.”

“Forse”, aveva detto Zelim. “Ma non vivrò in attesa di un simile evento.”

E infatti non fu così. Tuttavia, l’osservazione dello studente non lo abbandonò e finì per generare una nuova parabola: la storia di un uomo che vive in attesa di incontrare qualcuno che alla fine altri non sarà che il suo assassino.

E così passarono gli anni, e la fama di Zelim continuò a crescere. Nei suoi viaggi percorse distanze immense: visitò l’Europa, l’India, i confini della Cina, raccontando le sue storie e scoprendo che la strana poesia di ciò che aveva inventato sapeva dare piacere a ogni genere di cuore.

Passarono altri diciotto anni prima che tornasse a Samarcanda, per quella — anche se Zelim lo ignorava — che sarebbe stata l’ultima volta.

Sette

Ormai Zelim era avanti con gli anni, e anche se i suoi numerosi viaggi lo avevano reso forte e resistente, in quell’autunno il peso dell’età cominciava a farsi sentire. Le giunture gli facevano male e aveva difficoltà a prendere sonno. E quando riusciva a dormire, sognava Atva; o meglio, la spiaggia e la sacra famiglia. La sua vita di saggezza e di dolore era stata condizionata da quell’incontro. Se non si fosse recato alla spiaggia quel giorno, forse sarebbe rimasto per sempre tra i pescatori, a vivere una vita di assoluta povertà spirituale, senza niente che potesse svegliare ed elevare la sua anima.

E quindi era là, quell’ottobre, a Samarcanda, si sentiva vecchio e dormiva sonni agitati. Comunque, non aveva modo di riposarsi. Ormai il numero dei suoi devoti era cresciuto e uno di loro (il ragazzo che gli aveva posto quella domanda sul ciclo delle cose) aveva persino fondato una scuola. Erano tutti giovani che avevano trovato uno zelo rivoluzionario sepolto nelle parabole di Zelim, che nutriva la loro brama di vedere l’umanità libera dalle sue catene. Ogni giorno si incontrava con loro. A volte lasciava che gli ponessero delle domande, sulla sua vita, sulle sue opinioni. Altre volte — quando era stanco di essere interrogato — raccontava una storia.

Quel giorno in particolare, comunque, la lezione diventò un insieme delle due cose. Uno studente disse: “Maestro, in molti abbiamo avuto terribili discussioni con i nostri padri, che non vogliono permetterci di studiare le tue opere”.

“Davvero?” rispose il vecchio Zelim, inarcando un sopracciglio. “Non riesco a capirne il motivo.” Vi fu un breve scoppio di risa tra gli studenti. “Qual è la tua domanda?”

“Mi stavo solo chiedendo se puoi raccontarci qualcosa di tuo padre.”

“Mio padre…” sussurrò Zelim.

“Solo qualcosa.”

Il profeta sorrise. “Non essere così nervoso”, disse. “Perché hai un’aria tanto agitata?”

Il giovane arrossì. “Avevo paura che ti arrabbiassi con me per aver chiesto della tua famiglia.”

“In primo luogo”, rispose Zelim dolcemente, “sono davvero troppo vecchio per arrabbiarmi. È uno spreco di energia e non me ne rimane molta. In secondo luogo, mio padre siede davanti a te, proprio come tutti i vostri padri siedono qui davanti a me.” Il suo sguardo scrutò i trenta studenti che sedevano a gambe incrociate davanti a lui. “E mi sembra che siano un gruppo di uomini davvero degni di rispetto.” Tornò a guardare il giovane che gli aveva posto la domanda. “Che lavoro fa tuo padre?”

“È un mercante di lana.”

“E quindi, in questo momento, è là fuori in città a vendere lana, ma questo non soddisfa la sua natura. Ha bisogno di qualcos’altro nella vita, e così ti ha mandato a studiare filosofia.”

“Oh no… non capisci… non mi ha mandato lui.”

“Può anche pensare che non sia così. E tu puoi anche pensare che non sia stato lui a mandarti. Ma tu sei suo figlio, e tutto quello che fai lo fai per lui.” Il ragazzo si accigliò, chiaramente preoccupato al pensiero di fare qualcosa per suo padre. “Sei come le dita della sua mano, che scavano nella terra mentre lui conta le sue balle di lana. Non si accorge nemmeno della mano che sta scavando. Non vede che sta lasciando cadere dei semi. E rimane stupito quando si accorge che accanto a lui è cresciuto un albero pieno di dolci frutti e di uccelli che cantano. Ma è stata la sua mano a farlo.”

Il giovane abbassò lo sguardo a terra. “Cosa vuoi dire con questo?”

“Che noi non apparteniamo a noi stessi. Che quando non riusciamo a capire lo scopo della nostra esistenza, dovremmo guardare coloro che sono venuti prima di noi per comprenderlo meglio. Non solo i nostri padri e le nostre madri, ma tutti coloro che sono venuti prima di noi. Sono la strada che conduce a Dio, che potrebbe anche non sapere, mentre conta le sue stelle, che in silenzio stiamo scavando e piantando un seme…”

Il giovane sollevò di nuovo lo sguardo sorridendo, divertito dall’idea che Dio Padre potesse guardare altrove mentre le sue mani umane facevano crescere un giardino ai suoi piedi.

“Questo ha risposto alla tua domanda?” chiese Zelim.

“Però continuo a domandarmi…” disse lo studente. “Sì?”

“Tuo padre?”

“Era un pescatore che viveva in un piccolo villaggio chiamato Atva, sulle rive del Mar Caspio.” Mentre parlava, Zelim sentì un leggero alito di vento accarezzargli il volto, una brezza deliziosamente fresca. Fece una breve pausa e chiuse gli occhi godendosi quel momento. Quando li riaprì, seppe che qualcosa era cambiato nella stanza. Solo non avrebbe saputo dire cosa. “Dove eravamo?” domandò. “Ad Atva”, rispose qualcuno in fondo alla stanza. “Ah sì, ad Atva. Mio padre ha vissuto là tutta la vita, ma sognava di essere in luoghi molto diversi. Sognava Samarcanda. Raccontava ai suoi figli di esserci stato in gioventù, e dava vita a fantastiche storie su questa città; davvero fantastiche…”

Zelim si fermò nuovamente. La brezza lo aveva sfiorato una seconda volta e qualcosa, nel modo in cui lo aveva toccato, sembrava suggerirgli che si trattasse di un segno. Come se il vento gli stesse sussurrando guarda, guarda…

Ma cosa? Lanciò un’occhiata oltre la finestra, pensando che forse là fuori potesse esserci qualcosa che doveva vedere. L’orizzonte era sempre più scuro e la notte si stava avvicinando. Un castagno, ancora coperto di foglie nonostante la stagione, si stagliava contro il cielo. In alto, sopra i suoi rami, luccicava la stella della sera. Erano tutte cose che aveva già visto: un cielo, un albero, una stella.