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Tornò a guardare la stanza, ancora confuso. “Che genere di storie?” stava chiedendo qualcuno.

“Storie…?”

“Hai detto che tuo padre raccontava storie su Samarcanda.”

“Oh sì. Storie meravigliose. Mio padre non era molto bravo come marinaio. Infatti, annegò in una giornata perfettamente calma. Ma poteva raccontare storie su Samarcanda per un anno di seguito senza raccontare mai la stessa due volte.”

“Ma tu hai detto che non era mai stato qui”, lo interruppe il fondatore della scuola.

“Mai”, disse Zelim sorridendo. “È per questo che riusciva a raccontare storie così meravigliose su questa città.”

Quel suo ultimo commento divertì molto tutti. Ma Zelim quasi non sentì le risate. Ancora una volta, quella brezza ipnotica gli aveva sfiorato il viso; e ora, quando alzò gli occhi vide qualcuno muoversi tra le ombre in fondo alla stanza. Non era uno dei suoi studenti. I ragazzi indossavano tutti vesti color giallo pallido. Quella figura, invece, indossava pantaloni neri malconci e una camicia sudicia. Era nero, la sua pelle possedeva una strana iridescenza che riportò alla mente di Zelim un giorno ormai molto lontano.

“Atva…?” mormorò.

Solo gli studenti che erano più vicini a lui riuscirono a sentirlo, e anche loro, quando in seguito discussero di quella sera, non riuscirono a trovarsi d’accordo su cosa il maestro avesse detto esattamente. Alcuni pensavano che avesse sussurrato Allah, secondo altri aveva pronunciato una qualche formula magica che avrebbe dovuto tenere a bada lo sconosciuto in fondo alla stanza. La ragione per cui si dibatté così animatamente su quella parola è molto semplice: fu l’ultima parola pronunciata da Zelim, almeno nel mondo dei vivi.

Un attimo dopo si accasciò, e il bicchiere di tè che stava bevendo gli sfuggì di mano. I mormorii nella stanza cessarono di colpo; molti studenti si alzarono, alcuni già in lacrime o in preghiera. Il grande maestro era morto, la sua saggezza consegnata alla storia. Non ci sarebbero stati altri racconti, altre profezie. Solo secoli dedicati a rielaborare le storie che aveva narrato e a scoprire se le sue profezie si sarebbero avverate.

Fuori dalla stanza, sotto il rigoglioso castagno, due uomini parlavano a bassa voce. Nessuno li vide; nessuno sentì la felicità nelle loro parole. Non ho intenzione di inventarmi quelle parole, preferisco lasciare a voi quella conversazione: le cose che si dissero lo spirito di Zelim e Atva, che in seguito sarebbe stato chiamato Galilee. Vi dirò solo questo: che quando la conversazione finì, Zelim lasciò Samarcanda insieme a Galilee; un fantasma e un dio, che si aggiravano per il crepuscolo fumoso come due amici inseparabili.

Non c’è bisogno che vi dica che il ruolo di Zelim in questa storia è tutt’altro che concluso. Quel giorno fu chiamato dalla famiglia Barbarossa e da allora è sempre stato al suo servizio.

In questo libro, come nella vita, niente passa davvero. Le cose cambiano, certo; naturalmente, cambiano; è così che deve essere. Ma tutto è preservato nel momento eterno — Zelim il pescatore, Zelim il profeta, Zelim il fantasma — è stato raccontato in tutte le sue forme, e queste pagine non sono altro che una povera ma appassionata eco del grande libro che è la santità stessa.

Dev’esserci spazio, comunque, per un’ultima annotazione. Anche in un mondo immortale, ci sono momenti in cui la bellezza abbandona la vista o l’amore abbandona il cuore, e noi sentiamo il dolore di simili separazioni.

A Samarcanda, che per un certo periodo fu meravigliosa, le decorazioni blu e dorate si sono staccate dai muri, e il castagno sotto cui Zelim e Galilee parlarono subito dopo la dipartita del profeta è stato abbattuto. I palazzi sono cadenti e le strade che un tempo erano piene di rumore si sono arrese al silenzio. Non è un buon silenzio; non è la pace che regna nella cella di un eremita o la quiete dell’alba. È semplicemente un’assenza di vita. Regimi si sono succeduti, e così partiti e potenti, e vecchie e nuove guardie, e ciascuno di essi ha sottratto una parte della gloria di Samarcanda quando ha perso il potere. Adesso ci sono solo sporcizia e disperazione. La più grande speranza di coloro che ancora vivono lì è che un giorno o l’altro gli americani arrivino e I trovino una ragione per credere di nuovo nella città. Allora, ci saranno hamburger e soda e sigarette. Una triste ambizione per la gente di qualunque grande città.

E finché questo non accadrà, ci saranno solo strade desolate e vento sporco.

Quanto ad Atva, non esiste più. Immagino che se qualcuno scavasse in profondità nella sabbia lungo la riva, troverebbe i resti delle mura di qualche casa, forse una soglia o due, forse un vaso o due. Ma niente di grande interesse. Le vite vissute ad Atva furono insignificanti, proprio come le poche tracce che esse hanno lasciato. Atva non compare su alcuna mappa e non è citata in alcun libro sul Mar Caspio.

Atva ora esiste solo in due luoghi. Qui in queste pagine. E come vero nome di mio fratello Galilee.

Devo aggiungere un ultimo dettaglio prima di passare a questioni più urgenti. Riguarda quel primo giorno, il giorno in cui mio padre Nicodemus e sua moglie Cesaria battezzarono in mare loro figlio.

A quanto pare accadde questo: non appena Cesaria immerse il bambino nell’acqua, il piccolo, agitandosi, le scivolò tra le mani e le sfuggì, scomparendo nella prima onda che li lambì. Naturalmente, mio padre cercò di raggiungerlo, ma quel giorno la corrente era particolarmente forte, e prima che riuscisse ad afferrare suo figlio, il bambino era già stato spinto lontano dalla riva. Non so se Cesaria abbia pianto o gridato o sia semplicemente rimasta in silenzio. So comunque che non si mosse, perché una volta ha raccontato a Marietta di aver sempre saputo che Galilee l’avrebbe abbandonata, anche se era rimasta sorpresa nel vederlo allontanarsi a una così tenera età.

Alla fine, forse a quattrocento metri dalla riva, mio padre riuscì a individuarlo. Il bambino stava ancora nuotando. Quando Atva sentì le mani di suo padre attorno a lui, cominciò ad agitarsi e a piangere. Ma la presa di mio padre era salda. Si mise il bambino sulle spalle e tornò a riva.

Cesaria ha raccontato a Marietta che il piccolo era scoppiato a ridere quando era tornato tra le sue braccia, che aveva riso fino alle lacrime tanto era il divertimento per quello che aveva fatto.

Ma quando ripenso a questo episodio, soprattutto nel contesto di ciò che sto per raccontarvi, non è un bambino che ride quello che vedo. No, è l’immagine del piccolo Atva, nato da meno di un giorno, che scivola dalle mani di coloro che lo hanno creato e, ignorando le loro grida e le loro implorazioni, semplicemente si allontana nuotando e nuotando, come se il suo primo pensiero fosse la fuga.

PARTE TERZA

Una vita costosa

Uno

1

Ricordate Rachel Pallenberg? Vi ho parlato brevemente di lei diversi capitoli fa, quando stavo ancora decidendo con quale storia cominciare il mio libro. Ve l’ho descritta mentre guida dalle partì della sua città natale, Dansky, nell’Ohio, che si trova tra Marion e Shanck, vicino al Monte Gilead. Modesta sarebbe una descrizione gentile per questa città; banale sarebbe probabilmente più veritiera. Se un tempo ha avuto un qualche fascino particolare, ora è scomparso, abbattuto per fare spazio alle grandi ubiquità americane: fast-food da quattro soldi e negozi di liquori da quattro soldi. Di notte, la luce più brillante della città è quella della stazione di servizio.

Qui, Rachel ha vissuto fino all’età di diciassette anni. Queste strade dovrebbe esserle familiari. Ma si è persa. Anche se riconosce gran parte di ciò che vede — la scuola dove ha trascorso tanti anni infelici, la chiesa dove suo padre Hank (che era sempre stato più devoto di sua madre) la portava ogni domenica, la banca dove Hank Pallenberg ha lavorato fino alla sua morte prematura — vede tutte queste cose e le riconosce; eppure si è persa. Questa non è casa sua. Ma non lo è nemmeno il luogo che ha lasciato per venire fino a qui, lo stupendo appartamento con vista su Central Park, dove ha vissuto tra le braccia del lusso e della ricchezza, sposata all’uomo sognato da innumerevoli donne: Mitchell Geary.