Mio padre, se fosse qui, non approverebbe i miei libri. Non gli piaceva che leggessi. Gli ricordava, era solito dirmi, di come aveva perso mia madre. Un commento, tra l’altro, che ancora oggi non riesco a capire. L’unico volume che mi incoraggiava a studiare era il libro di due sole pagine che si apre tra le gambe di una donna. Mi nascondeva l’inchiostro, la penna e la carta, quando ero bambino; anche se, naturalmente, dal momento che mi erano proibiti, finivo per desiderarli ancora di più. Aveva deciso che la sola cosa che avrei dovuto apprendere sarebbe stata l’arte dell’allevamento dei cavalli che, dopo il sesso, era la sua più grande passione.
Da ragazzo, ho viaggiato per il mondo per conto di mio padre, comprando e vendendo cavalli, organizzando il loro trasporto qui, alle stalle dell’Enfant, imparando a comprendere la loro natura come la comprendeva lui. Ero bravo in ciò che facevo; e amavo viaggiare. E fu proprio durante uno di questi viaggi che conobbi Chiyojo, la mia defunta moglie, e la portai qui, deciso a formare una famiglia. Sfortunatamente quelle dolci ambizioni mi vennero negate da una serie di tragedie che culminò con la morte sia di mia moglie sia di Nicodemus.
Ma sto anticipando troppo. Stavo parlando di questa stanza e di ciò che ospitava ai tempi di mio padre: i falli, la pergamena, il teschio del cavallo. Cos’altro? Lasciatemi pensare. C’erano una campana che secondo Nicodemus era stata suonata da un lebbroso guarito durante la Crocifissione (si era portato la campana nella tomba) e uno strumento, non più grande del portasigari in cui tengo i miei avana, che emette una strana musica lamentosa se viene toccato, il cui suono è così simile alla voce umana che è possibile credere, come insisteva nel dire mio padre, che il suo interno sigillato davvero contenga un meccanismo vivente.
Vi prego di sentirvi liberi di pensare ciò che volete di queste affermazioni. Anche se mio padre è morto da quasi centoquarant’anni, non ho alcuna intenzione di dargli del bugiardo in queste pagine. Uomini come lui non prendono bene il fatto che i loro racconti vengano messi in discussione, e benché sia morto non sono del tutto convinto di essere al sicuro da lui.
Comunque, è una bella stanza. Costretto come sono a sedere qui per la maggior parte del tempo, ho acquisito una particolare familiarità con ogni sfumatura della sua forma e del suo volume, e se Jefferson ora fosse qui davanti a me, gli direi: signore, non riesco a pensare a una prigione più felice di questa, né a una prigione più adatta a ispirare gli sciatti voli della mia mente.
Se sono così felice qui, seduto con un libro tra le mani, allora perché, potreste chiedervi, ho deciso di prendere carta e penna e scrivere quella che inevitabilmente sarà una storia tragica? Perché tormentarmi in questo modo, quando potrei andare con la mia sedia a rotelle sulla balconata a leggere San Tommaso d’Aquino e a osservare la vita delle mimose?
Ci sono due ragioni. La prima è la mia sorellastra, Marietta.
È andata così. Circa due settimane fa, è venuta nella mia stanza (senza bussare, come al solito), si è versata un bicchiere di gin, senza chiedere il permesso, come al solito, e si è seduta senza essere stata invitata su quella che era la poltrona di mio padre, dicendo: “Eddie…”
Lei sa che odio essere chiamato Eddie. Il mio nome completo è Edmund Maddox Barbarossa. Edmund va bene; Maddox va bene; da ragazzo venivo persino chiamato Il Bue, e non lo trovavo affatto offensivo. Ma Eddie? Un Eddie può camminare. Un Eddie può fare l’amore. Io non sono un Eddie.
“Perché fai sempre così?” le ho domandato.
Si è appoggiata allo schienale scricchiolante della poltrona e ha sorriso maliziosa: “Perché ti dà fastidio”, ha detto. Una risposta tipicamente mariettesca. Quando vuole, può essere la pura essenza della perversione, anche se guardandola non lo si direbbe affatto. Non ho intenzione di adularla (a questo provvedono già più che a sufficienza le sue amanti), ma è una donna veramente bellissima. Quando sorride, ha il sorriso di mio padre; la stessa fame, un’eco di lui. Ma per il resto è in tutto e per tutto figlia di Cesaria; nel taglio degli occhi e nello sguardo pieno di tranquilla certezza, che se indugia su qualcuno per più di un istante è come qualcosa di fisico. Non è molto alta, la mia Marietta — poco più di un metro e cinquanta senza stivali — e ora l’immensità della poltrona in cui siede e il sorriso dolce e allo stesso tempo frivolo sul suo viso paiono quasi rimpicciolirla fino a farla sembrare quasi una bambina. Non era difficile immaginare mio padre alle sue spalle, le braccia possenti che la cingevano, cullandola. Forse anche lei lo ha immaginato, seduta lì. Forse è stato quel ricordo a spingerla a dire:
“Ti senti triste in questi giorni? Voglio dire, particolamente triste?”
“Che cosa intendi con particolarmente triste?”
“Be’, so che passi il tuo tempo qui a deprimerti.”
“Io non mi deprimo.”
“Tu ti isoli.”
“È una mia scelta. Non sono infelice.”
“Sinceramente?”
“Ho tutto quello di cui ho bisogno, qui. I miei libri, la mia musica. E se proprio sono disperato ho addirittura un televisore. So anche come accenderlo.”
“Per cui non ti senti triste? Mai?”
Dal momento che insisteva così testardamente sull’argomento, mi sono fermato a rifletterci per qualche istante. “In effetti, ho avuto un paio di fitte di malinconia, recentemente”, le ho concesso. “Niente che non sia riuscito a scrollarmi di dosso, comunque.”
“Odio questo gin.”
“È inglese.”
“È amaro. Perché devi bere proprio gin inglese? Il sole è tramontato sull’Impero molto tempo fa.”
“Mi piace proprio perché è amaro.”
Lei ha fatto una smorfia. “La prossima volta che andrò a Charleston, ti comprerò del brandy veramente favoloso”, ha detto.
“Il brandy è sopravvalutato”, ho commentato.
“Diventa ottimo, se ci sciogli dentro un po’ di cocaina. L’hai mai provato? Ti dà la carica.”
“Cocaina sciolta nel brandy?”
“Va giù che è una meraviglia e il mattino dopo non ci si ritrova il naso pieno di muco grigiastro.”
“Non ho bisogno di cocaina, Marietta. Me la cavo egregiamente con il mio gin.”
“Ma il liquore ti fa venire sonno.”
“E allora?”
“E allora non potrai permetterti di essere sempre assonnato una volta che sarai al lavoro.”
“Mi sono perso qualcosa?” le ho domandato.
Lei si è alzata e, nonostante il suo disprezzo per il mio gin inglese, si è riempita ancora il bicchiere ed è venuta a fermarsi dietro la mia sedia. “Vuoi che ti porti in terrazza?”
“Vorrei che venissi al punto.”
“Pensavo che a voi inglesi piacesse la prevaricazione”, ha detto lei, allontanandomi dalla scrivania e spingendomi fino alla portafinestra. Era già aperta: ero rimasto seduto a godermi la fragranza dell’aria della sera quando è entrata Marietta. Mi ha portato sulla terrazza.
“Ti manca l’Inghilterra?” mi ha chiesto.
“Questa conversazione è sempre più strana…” ho detto io.
“È una semplice domanda. Devi sentirne la mancanza, qualche volta.”
(Mia madre, è giusto che lo spieghi, era inglese; una delle molte amanti di mio padre.)
“È passato molto tempo dall’ultima volta che sono stato in Inghilterra. Riesco a ricordarmela veramente solo nei sogni.”
“Trascrivi i sogni?”
“Oh… Ora capisco. Si tratta ancora del libro.”
“È ora, Maddox”, ha continuato Marietta, in un tono estremamente serio che non le sentivo usare da anni. “Non ci resta molto tempo.”