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C’è ancora molto da dire sul Vecchio Geary; ma torneremo a lui più tardi. Per il momento, permettetemi di lasciarlo così, col suo trionfo, e di tornare all’argomento della mortalità. Vi ho già detto della morte di Laurence Geary (con la prostituta all’Avana) e di quella di Tyler (l’aereo dello zio Todd, in Florida), e naturalmente di quella di George (sulla sua Mercedes, a Long Island), ma ci sono altri decessi che dovrebbero essere raccontati in questa sede. Vi ho parlato di Verna, la madre di Cadmus? Certo. Come ricorderete, morì in manicomio. Ma non vi ho detto che si trattò quasi certamente di un omicidio, a quanto sembra commesso da un’altra paziente, una certa Dolores Cooke, che si suicidò sei giorni dopo la morte di Verna. Eleanor, sua figlia, morì in tarda età, proprio come Louise Brooks che abbandonò il cinema all’inizio degli anni Trenta perché quell’ambiente era ormai troppo squallido perché lo potesse sopportare.
Quindi rimane solo Kitty che morì di cancro all’esofago nel 1979. Aveva settantasette anni. L’anno successivo, Cadmus si risposò con una donna di vent’anni più giovane di lui, Loretta Talley. Anche Loretta era stata un’attrice, e in gioventù aveva lavorato a Broadway per qualche tempo.
Quanto a Kitty, il suo ruolo in ciò che seguirà sarà di scarsissima importanza, e mi dispiace, perché sono in possesso di una copia di uno straordinario documento che scrisse poco prima di morire, un documento che potrebbe dare vita a innumerevoli, interessanti speculazioni. Il testo è a dir poco caotico, ma non c’è da sorprendersi se si pensa ai medicinali che le venivano somministrati nel periodo in cui lo scrisse. Pagina dopo pagina, la sua testimonianza documenta il suo struggimento per qualcosa di più importante dei suoi doveri di madre, moglie e benefattrice, una fame profonda e inestinguibile di qualcosa di poetico nella sua vita. Talvolta il testo perde completamente di significato e diventa una serie di immagini sconnesse. Ma anche in questi casi non manca di potenza. Ho l’impressione che stesse cominciando, proprio alla fine della sua esistenza, a vivere in un continuo presente: un luogo in cui la memoria, l’esperienza e le aspettative si fondevano in un unico delirante fiume di sentimenti. In certi brani, scrive come una bambina intenta a osservare, grottescamente affascinata, il proprio corpo devastato.
Parla anche di Galilee.
Solo quando ho riletto il documento per la terza volta (in cerca di qualche traccia di ciò che pensava dell’omicidio di George Geary) mi sono reso conto che parlava del mio fratellastro. Entra ed esce dal racconto di Kitty come la brezza che proprio in questo istante soffia tra le carte che occupano la mia scrivania; qualcosa che è reso visibile solo dal suo effetto. Ma non ci sono dubbi: Galilee le offrì una breve visione di tutto quello che le era stato negato; fu, se non l’amore della sua vita, almeno un’affascinante visione dei cambiamenti che un autentico grande amore avrebbe potuto operare in lei.
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Ora lasciate che vi accompagni in una breve visita guidata tra le proprietà dei Geary, dal momento che molti degli avvenimenti di cui vi parlerò hanno avuto luogo in quelle case. Nel corso degli anni la famiglia ha acquistato un gran numero di beni immobili e, visto che non ha mai avuto bisogno di farli fruttare, raramente ha venduto qualcosa. Talvolta i Geary hanno ristrutturato queste proprietà per poi occuparle. Ma più spesso le loro case sono rimaste vuote — per quanto pulite e riordinate regolarmente — per interi decenni, senza che nemmeno un membro della famiglia vi mettesse piede. Sono a conoscenza delle ville e degli appartamenti che i Geary possiedono a Washington, a Boston, a Los Angeles, nel Montana, in Louisiana, nel South Carolina e alle Hawaii; e in Europa, a Vienna, a Zurigo, a Londra, a Parigi; e in luoghi ancora più lontani, a Il Cairo, a Bangkok e a Hong Kong.
Per ora, comunque, mi limiterò a descrivervi solo le loro proprietà di New York. Mitchell ha un pied a terre a Soho, un luogo che al suo interno è molto più elaborato e molto meno sorvegliato di quanto l’esterno dell’edificio lascerebbe supporre. Margie e Garrison occupano due dei piani più alti della Trump Tower. Acquistare quell’appartamento fu un’idea di Margie (in quel periodo la Trump Tower era uno degli spazi più costosi al mondo e a lei piaceva l’idea di far spendere a Garrison una tale quantità di denaro) che comunque non fece mai niente per dare un po’ di calore all’ambiente. L’arredatore, un uomo di nome Jeffrey Penrose, morì un mese dopo aver finito il lavoro, e in alcuni articoli che vennero scritti su di lui l’appartamento della Trump Tower fu descritto come la sua “ultima grande creazione; in tutto e per tutto simile alla donna che lo aveva assunto — eccessiva, appariscente e selvaggia”. E in effetti Margie, a quel tempo, era proprio così. Gli anni che da allora sono trascorsi non sono stati clementi, comunque, ciò che all’epoca sembrava eccessivo e brillante oggi ha un’aria irrimediabilmente datata.
La sola grande e autentica residenza dei Geary in città è il luogo che tutti i membri della famiglia chiamano semplicemente “il palazzo”; una grande casa del tardo diciannovesimo secolo nell’Upper East Side. La zona in cui si trova è chiamata Carnegie Hill, ma avrebbe potuto benissimo prendere il nome dei Geary; Laurence abitava lì già da vent’anni quando Andrew Carnegie fece costruire la sua casa tra la Quinta e la Novantunesima. Molte delle case che circondano la residenza dei Geary oggi ospitano ambasciate di vari paesi; sono davvero troppo grandi e costose per una normale famiglia. Ma Cadmus era nato e cresciuto in quel palazzo e l’idea di venderlo non lo aveva mai sfiorato. Prima di tutto, la quantità di oggetti contenuti in quella casa non potrebbe mai essere trasferita in un luogo dalle dimensioni più modeste: mobili, tappeti, orologi, objets d’art; abbastanza da riempire un museo. E poi ci sono i quadri che, a differenza del resto, è stato proprio Cadmus a collezionare personalmente. Tele enormi, tutte di pittori americani. Magnifiche opere di Albert Bierstadt, Thomas Cole e Frederick Church, grandi dipinti che immortalano paesaggi americani straordinariamente evocativi. Alcuni potrebbero giudicare retorici e antiquati questi lavori, opere di talenti non proprio eccezionali che hanno cercato di superare se stessi in cerca di una visione sublime. Ma appesi nella grande casa di New York, quei quadri (alcuni dei quali occupano intere pareti) assumono un’autorità innegabile. Sì, quello è un luogo buio e pesante; talvolta è difficile riprendere fiato, perché l’aria è così densa, così viziata. Ma non è questo che gli ospiti ricordano del palazzo, una volta che lo hanno lasciato. Ricordano i dipinti, che sembrano quasi vere e proprie finestre aperte su grandi paesaggi incontaminati.
La casa è gestita da sei persone, sotto la supervisione di Loretta naturalmente. Per quanto duro lavorino, la casa è davvero troppo grande. C’è sempre della polvere da qualche parte; potrebbero lavorare ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni alla settimana, senza mai riuscire a coprire l’enormità di quel luogo.
E così queste sono le residenze di New York City. In effetti non vi ho detto tutto. Garrison ha un luogo segreto di cui nemmeno Margie è a conoscenza, ma ve lo descriverò più avanti, quando vi spiegherò la ragione per cui è costretto a non parlarne con nessuno. C’è anche un’altra casa fuori città, nei pressi di Rhinebeck, ma anche quel luogo sarà importante solo in un secondo momento, quindi per ora non lo descriverò.
La sola altra dimora a cui devo accennare in queste pagine è molto lontana da New York, ma penso che meriti di essere citata perché nella mia immaginazione costituisce una sorta di trinità insieme al palazzo e all’Enfant. Si tratta di una casa molto più modesta delle altre due. Probabilmente è la meno appariscente delle abitazioni di cui vi parlerò in questa storia. Ma sorge a pochi metri dal blu del Pacifico, in una foresta di palme, e per i pochi fortunati che hanno trascorso una notte o due sotto il suo tetto rappresenta un ricordo paradisiaco.