“Su cosa?”
“Sui manicomi.”
“Che allegria. Ah! Adesso ricordo! È Alice.” Ha lanciato in aria la confezione di fiammiferi e l’ha ripresa al volo. “Alice la bionda. Vive a Raleigh.”
“A giudicare dal tuo entusiasmo, deve piacerti molto”, ho commentato.
“Alice è adorabile. Voglio dire, è davvero… sontuosa.” Si è tolta un frammento di tabacco dai denti. “Dovresti uscire con me, uno di questi giorni. Andiamo a bere qualcosa. Ti presento le ragazze.”
“Penso che non mi troverei a mio agio.”
“E perché? Di sicuro nessuna ti farà delle avance, non in un bar per sole donne.”
“Non posso.”
“E invece sì.” Mi ha indicato con l’estremità umida del sigaro. “Ti porterò fuori a divertirti.” Si è rimessa in tasca i fiammiferi. “E forse ti presenterò Alice.”
Naturalmente, mi ha lasciato in preda all’insicurezza. Adesso ero di umore pessimo, e così ho raggiunto la cucina per affogare i miei dolori nel cibo. Era quasi l’una di notte, e Dwight si era ritirato in camera sua già da diverse ore. L’Enfant era immerso nel silenzio. L’aria era viziata, così ho aperto la finestra sopra il lavandino. Sono rimasto lì in piedi per qualche istante, la brezza leggera che mi rinfrescava il viso. Poi sono andato al frigorifero, e ho cominciato a prepararmi un sandwich principesco: strati di prosciutto affumicato, senape, sottili fette di melanzana, pomodorini e olio d’oliva, il tutto chiuso tra due fette di pane di segale.
Rimpinzarmi mi ha aiutato a rimettere le cose nella giusta prospettiva. Perché mi preoccupavo dell’opinione di Marietta? Non era certo una grande critica letteraria. E quello era il mio libro, erano le mie idee e la mia visione. Se non le piaceva, erano solo affari suoi. Il suo parere era irrilevante. Quasi senza accorgermene, ho cominciato a borbottare tra me e me, mescolando parole e prosciutto in bocca.
“Che cosa stai blaterando?”
Ho smesso di parlare di colpo e mi sono voltato a guardare. Là, sulla soglia, c’era Zabrina. Indossava un’enorme camicia da notte, e aveva il viso struccato. I suoi occhi erano piccoli, la sua bocca larga ma dalle labbra sottili; Marietta, una volta, in un momento di rabbia, le aveva dato della rana obesa e per quanto questa descrizione possa essere crudele, in qualche modo è calzante. Il suo unico attributo di grande fascino sono i capelli, di un rosso profondo e luminoso, lunghi fino alla vita. Quella sera li aveva sciolti e le coprivano le spalle e il petto come un mantello.
“È tanto che non ci vediamo”, le ho detto.
“Oh no, ci siamo visti”, ha ribattuto lei, con la sua strana voce affannosa, “ma non ci siamo parlati.”
Stavo per dirle — è solo perché tu sei sempre di fretta — ma mi sono trattenuto. Zabrina era una creatura nervosa. Una parola sbagliata e sarebbe scomparsa all’istante. È andata a ispezionare il frigorifero. Come al solito, Dwight le aveva lasciato un’ampia scelta di torte e dolci.
“Non ho alcuna intenzione di aiutarti”, ha detto all’improvviso.
“Aiutarmi?”
“Certo”, ha replicato lei, continuando a studiare il contenuto del frigorifero. “Non penso che sia giusto.” Ha afferrato due torte poi, piroettando con una grazia sorprendente per una donna delle sue dimensioni, si è voltata e ha chiuso il frigo con un colpo del fianco. “Quindi non aspettarti niente da me.”
Stava parlando del libro, naturalmente. La sua irritazione non mi stupiva per niente, dal momento che sapeva che l’idea di scriverlo era in parte di Marietta. Ma io non ero dell’umore di ascoltare le sue rimostranze.
“Meglio che non ne parliamo, allora”, ho detto.
Ha appoggiato le torte — una di ciliegie e una di noci — sul tavolo, una accanto all’altra. Poi è tornata al frigo e, con un piccolo sospiro di irritazione, ha preso un recipiente pieno di panna montata. La forchetta era già nel recipiente. Si è seduta e ha cominciato a mangiare: con la forchetta ha preso un po’ di torta di ciliegie, un po’ di torta di noci e una dose generosa di panna montata. Doveva averlo già fatto innumerevoli volte; osservarla mentre creava quelle piccole, ordinate torri di eccesso culinario, senza far cadere briciole di torta nella panna montata e senza far gocciolare la panna sul tavolo, era affascinante.
“Allora, hai sentito Galilee di recente?”
“No, è da molto che non ho sue notizie.”
“Ah!” Si è messa una montagnola di torta e panna in bocca, socchiudendo le palpebre, deliziata.
“Ti scrive mai?”
Lei ha masticato e inghiottito il boccone con calma prima di rispondere. “Di tanto in tanto, mi mandava qualche riga. Ma è molto tempo che non lo fa più.”
“Ti manca?”
Si è accigliata. “Non cominciare”, ha risposto. “Te l’ho già detto.”
Ho alzato gli occhi a cielo. “In nome di Dio, Zabrina, ti ho soltanto chiesto.”
“Non voglio esserci, nel tuo libro.”
“Me l’hai già detto.”
“Non voglio essere nel libro di nessuno. Non voglio che… si parli di me. Vorrei essere invisibile.”
Non sono riuscito a trattenere un sorrisetto ironico. L’idea che proprio Zabrina sognasse di essere invisibile era tragicamente divertente. Forchettata dopo forchettata, si allontanava sempre più dalla realizzazione del suo desiderio. Quando ha sollevato di nuovo lo sguardo su di me, nonostante i miei sforzi, il sorrisetto c’era ancora.
“Cosa c’è di tanto buffo?” mi ha chiesto.
Ho scosso la testa. “Niente.”
“Sono grassa. Vorrei essere morta. E allora?”
“Non parli sul serio quando dici che vorresti essere morta”, ho detto io, serio ora. “Ne sono certo.”
“Che ragioni ho per vivere?” ha replicato lei. “Non ho niente, non c’è niente che io voglia.” Ha posato la forchetta e ha cominciato a mangiare con le mani. “Ogni giorno è la stessa storia. Faccio la serva a mia madre. Mangio. Faccio la serva a mia madre. Mangio. Di notte sogno di essere lassù con lei, mentre parla dei vecchi tempi.” Con improvvisa veemenza ha aggiunto: “Odio i vecchi tempi! E il domani? Perché non fare qualcosa pensando al domani?” Il suo volto ora era paonazzo. “Siamo tutti così passivi”, ha continuato, con la voce che sfumava verso la tristezza. “Tu hai recuperato l’uso delle gambe e che cosa hai fatto? Te ne sei andato di qui? No. Sei rimasto seduto, esattamente come hai fatto per tutti questi anni, come se fossi ancora un invalido. E in realtà lo sei ancora. Io sono grassa e tu sei un invalido, e andremo avanti così giorno dopo giorno a vivere le nostre esistenze inutili, finché qualcuno non verrà da là fuori…” ha fatto un gesto come per indicare il mondo esterno “… e ci farà la gentilezza di piazzarci una pallottola in testa.”
Detto questo, si è alzata abbandonando quel che rimaneva delle torte e ha lasciato la cucina. Non ho cercato di fermarla. Mi sono appoggiato allo schienale della sedia e l’ho guardata sparire oltre la soglia.
Poi, devo ammetterlo, mi sono preso la testa tra le mani e ho pianto.
Sei
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Dopo essere stato assalito sia da Marietta sia da Zabrina, del tutto incerto del mio talento ormai, ho fatto ritorno nella mia stanza e sono rimasto sveglio per il resto della notte. Vorrei potervi dire che è stato così perché stavo lottando con problemi letterari, ma la verità è ben più prosaica: avevo la diarrea. Non ho idea se sia stato colpa del prosciutto o delle melanzane o della conversazione con Zabrina, so soltanto che ho trascorso le ore che mi separavano dall’alba seduto sul mio trono di porcellana avvolto dai miei miasmi privati. Verso l’alba, esausto e demoralizzato, mi sono trascinato fino al letto e mi sono riposato per un paio d’ore. Al mio risveglio, ho deciso che avrei dovuto scrivere del matrimonio di Rachel e Mitchell con uno stile molto più asciutto di quello che avevo usato fino a quel momento. Dopotutto, un matrimonio è un matrimonio. Non c’è ragione di dilungarsi sull’argomento.