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Quando se ne fu andato, Rachel ripensò al movimento della sua erezione dentro di lei, come se fosse un fallo fantasma che continuava a scivolare dentro e fuori dal suo corpo. E ripensò anche al modo in cui Mitchell parlava quando era eccitato. Spesso la chiamava piccola, e quel pomeriggio non era stato diverso. Piccola, oh piccola, oh piccola, aveva detto mentre la penetrava. Ma ora, ripensando alla sua voce, lei ebbe l’impressione che stesse parlando al bambino che era dentro di lei; alla nuova vita che portava nel grembo. Piccola, oh piccola, oh piccola.

Non sapeva se sentirsi commossa o turbata, così decise di non essere nessuna delle due cose. Si avvolse nelle lenzuola e nella trapunta e dormì, mentre la neve si adagiava sul parco come una spessa coperta bianca.

2

Da quando ho scritto l’ultimo passaggio — per la precisione ieri pomeriggio — Luman è passato a trovarmi ben tre volte, cosa che mi ha distratto al punto che non sono riuscito a calarmi nello spirito giusto per continuare la mia storia. Per cui ho deciso di raccontarvi il succo delle mie distrazioni: in questo modo forse riuscirò a dimenticarle.

Più tempo passo con Luman, più mio fratello mi appare problematico. Dopo la nostra ultima conversazione, ha deciso — dopo anni di straniamento — che sono il suo migliore amico: qualcuno con cui fumare (ha già consumato una mezza dozzina dei miei avana), un confidente e, naturalmente, un collega scrittore. Come ho detto a Zabrina, si è messo in testa che collaborerò con lui alla stesura del testo definitivo sui manicomi. Non ho mai accettato una proposta simile, ma non ho il coraggio di infrangere il suo sogno; era chiaro che per lui era molto importante. Viene a portarmi strani appunti che ha preso (in effetti, non irrompe nella mia stanza come farebbe Marietta; resta ad aspettare in veranda fino a quando non distolgo gli occhi dal mio lavoro e lo invito a entrare) dicendomi dove dovremmo inserirli nel grande schema del suo libro. Ovviamente, ha già progettato tutto fin nei minimi particolari, perché mi dice: questo va nel capitolo Sette; oppure: questo va insieme alle storie su Bedlam, come se la sua visione fosse perfettamente chiara anche a me. Ma non è così. Prima di tutto, non mi ha spiegato che cosa sarà questo suo libro (anche se lui è convinto del contrario), e poi ho già un mio libro a cui pensare in questo momento. Non posso dedicarmi a due progetti contemporaneamente. Riesco a malapena a proseguire con ciò che sto scrivendo ora.

Forse avrei fatto meglio a dirgli chiaramente che non ho intenzione di collaborare con lui. Così mi avrebbe lasciato in pace e avrei potuto continuare a raccontarvi di Rachel. Ma era talmente entusiasta che non ho avuto il coraggio di deluderlo.

Ma non è questa l’unica ragione per cui non gli ho raccontato la verità, devo ammetterlo. Anche se Luman è una continua distrazione per me, la sua è una compagnia stranamente stimolante. Più tempo passa con me, più si sente a suo agio, più gli torna difficile tenere la conversazione su binari coerenti. Mentre mi sta spiegando qualche assurdo dettaglio del suo libro, di punto in bianco salta a un argomento completamente diverso, e poi ancora e ancora, come se nella sua stessa vita vi fosse più di un solo Luman e stessero tutti cercando di accaparrarsi l’uso della sua lingua. C’è Luman il pettegolo che ha un modo di fare estroverso e vagamente effeminato. C’è Luman il metafisico che pontifica fissando il soffitto. C’è Luman l’enciclopedia che d’improvviso comincia a parlare di diritto romano o di arte topiaria. (Alcune delle cose che mi ha raccontato quando è in questa fase sono assolutamente affascinanti. Prima che me ne parlasse lui, non sapevo che in alcune specie di iena la femmina è indistinguibile dal maschio, il clitoride grande come un pene, le labbra della vagina gonfie e cascanti come uno scroto. Nessuna meraviglia che Marietta si fosse affezionata alle iene. Né sapevo che i templi in cui Cesaria era stata adorata spesso erano anche tombe; e che i matrimoni sacri, gli heiros gamos, venivano celebrati proprio lì, tra i morti.)

E poi c’è Luman il trasformista che di colpo può cambiare completamente voce, come se fosse posseduto. Ieri notte, per esempio, ha interpretato Dwight così perfettamente che se avessi chiuso gli occhi non sarei stato capace di distinguerlo dall’originale, e più tardi ancora, mentre stava per andarsene, ha parlato con la voce di Chiyojo, citando un passo di una poesia scritta da mia madre:

“Il mio Salvatore è il più diligente; Mi ha segnata nel suo libro Enumerando i miei torti, E nelle sue pagine sono al sicuro. Solo Colui Che Cadde Ci vuole perfetti; Perché allora non avremo più bisogno dette cure degli angeli”.

Potete immaginare che strana sensazione sia stata: la voce di mia moglie ancora chiaramente giapponese, che recitava un pensiero nato nel cuore di mia madre. Le due donne più importanti della mia vita che emergevano dalla gola di quell’uomo confuso e dallo sguardo selvaggio. Nessuna meraviglia che questo mi abbia distratto dal mio lavoro.

Ma le parti più strane di questi incontri sono altre, quelle in cui la conversazione sconfina nel metafisico. Luman, evidentemente, ha riflettuto a lungo sui paradossi della nostra condizione: una famiglia di divinità (nel mio caso, una semidivinità) che si nasconde da un mondo che non ci vuole più o non ha più bisogno di noi.

“La divinità non significa niente di niente”, mi ha detto. “Serve solo a farci impazzire.”

Io gli ho chiesto perché. (Non ho messo in dubbio la sua affermazione. So che ha ragione: tutti i Barbarossa sono un po’ pazzi.) Lui mi ha risposto che siamo soltanto dèi minori.

“Non siamo molto meglio della gente che vive là fuori, se ci pensi bene”, ha continuato. “Certo, viviamo più a lungo. E conosciamo qualche trucco. Ma niente di molto profondo. Non possiamo creare le stelle. Né possiamo distruggerle.”

“Nemmeno Nicodemus?” gli ho chiesto.

“Nah. Nemmeno lui. Ed era uno dei Primi Creati. Come lei.” Ha indicato il soffitto, in direzione delle stanze di Cesaria.

“ ‘Due anime vecchie come il paradiso…’ ’

“Chi lo ha detto, questo?”

“Io”, ho risposto. “È una frase del mio libro.”

“Niente male.”

“Grazie.”

Luman è rimasto in silenzio per qualche istante. Forse stava riflettendo sul mio stile, ma no, la sua mente come una cavalletta era già saltata a qualcos’altro; o meglio, era saltata indietro, tornando alla nostra problematica divinità.

“Credo che vediamo troppo lontano”, ha detto. “Siamo incapaci di vivere nel presente. Guardiamo sempre oltre i confini delle cose. Ma non siamo potenti abbastanza da riuscire a vederle veramente.” Ha ringhiato come un cane rabbioso. “È così fottutamente frustrante non essere né l’una né l’altra cosa.”

“Cioè?”

“Se fossimo veri dèi… voglio dire, quello che dovrebbero essere gli dèi, non ce ne staremmo certo qui a sprecare il nostro tempo. Saremmo da qualche parte là fuori, e avremmo ancora molto da fare.”

“Non intendi nel mondo, vero?”

“No. Si fotta il mondo. Voglio dire là fuori, al di là di ciò che chiunque su questo pianeta abbia mai visto o sognato di vedere.”

Ho pensato a Galilee. Era forse possibile che la stessa fame di cui stava parlando Luman — forse inarticolata, ma non per questo meno ardente — avesse spinto Galilee ad attraversare l’oceano sulla sua piccola barca, sfidando tutto ciò che conosceva, eppure senza sentirsi mai abbastanza lontano dalla terra o da casa?