Garrison lo fissò, poi si lasciò sfuggire un lungo sospiro stranamente soddisfatto. “E allora cosa farai per il resto della serata?” domandò.
Mitchell gettò un’occhiata all’orologio. “Andrò a casa e mi infilerò a letto.”
“Da solo?”
“Sì. Da solo.”
“Niente sesso. Niente gelato. Morirai tremendamente infelice, lo sai? Potrei trovarti un po’ di compagnia per stanotte.”
“No, grazie.”
“Sei sicuro?”
Mitchell scoppiò a ridere. “Sono sicuro.”
“Cosa c’è di così buffo?”
“Tu. Tu che cerchi di farmi andare a letto con qualcuna come quando avevo diciassette anni. Ricordi quella puttana che portasti a casa per me?”
“Juanita.”
“Juanita! Esatto. Gesù, quanti ricordi!”
“L’unica cosa che voleva fare.”
“Ti prego, non ricordarmelo.”
“… era sedersi sulla tua faccia! Avresti dovuto sposarla”, aggiunse Garrison, spingendo indietro la sedia e alzandosi. “Avresti già una ventina di figli, adesso.” Mitchell lo guardò, risentito. “Non prendertela con me. Sai che è così. Abbiamo sbagliato tutti e due. Avremmo dovuto sposare un paio di stupide puttane con fianchi da fattrici. Ma invece no. Io mi sono scelto un’ubriacona, e tu una commessa.” Prese il bicchiere e finì l’ultimo sorso di vino. “Be’… passa una buona notte.”
“Dove vai?”
“Ho un impegno.”
“Qualcuna che conosco?”
“Non la conosco nemmeno io”, disse Garrison allontanandosi. “Ma sai, è molto più facile così.”
Quindici
C’è stato un tempo — molti, molti anni fa; così tanti che quasi non mi interessa contarli — in cui niente mi dava più piacere delle canzoni d’amore. Sapevo persino cantarne qualcuna, quando ero abbastanza ubriaco. Di tanto in tanto, prima che perdessi l’uso delle gambe, uscivamo insieme, mia moglie Chiyojo, Marietta e io, e andavamo ad ascoltare i musicisti di passaggio a Raleigh, e in ogni spettacolo c’era sempre un punto in cui l’atmosfera diventava dolcemente malinconica e un cantante o un gruppo di cantanti o una cantante si portavano la mano al petto e intonavano qualcosa che commuoveva i nostri cuori. I’ll remember You, Love, In My prayers oppure White Wings; e per quanto mi riguardava, più le canzoni erano grottescamente sentimentali, meglio era. Ma ho perso il gusto per quel genere di intrattenimento quando è morta Chiyojo. Una ballata lamentosa su un amore irrimediabilmente perduto era facile da apprezzare quando l’oggetto dei miei affetti sedeva accanto a me e mi stringeva la mano. Ma da quando mi è stata tolta — in circostanze così tragiche da far impallidire l’immaginazione di qualunque autore di canzoni — mi bastano un paio di accordi tristi per cominciare a piangere.
Eppure, nonostante questa mia resistenza, l’amore si avvicina sempre di più, pagina dopo pagina, paragrafo dopo paragrafo; il momento in cui l’amore dovrà apparire per trasformare le vite dei personaggi di cui vi ho parlato. Alcuni saranno solo sfiorati dalle conseguenze di questo sentimento, ma non saranno molti.
E tra costoro, naturalmente, ci sono anch’io. Più di una volta mi sono chiesto se non sia stata la paura della mia stessa vulnerabilità a impedirmi di cominciare a scrivere prima. Ho sempre nutrito una grande passione per le parole, l’ho ereditata da mia madre e indubbiamente ho avuto molto tempo libero da un secolo a questa parte. Ma finora non ci sono mai riuscito. Avevo paura — e ne ho ancora — che una volta che avessi cominciato a scrivere d’amore mi sarei ritrovato consumato dallo stesso fuoco che voglio far ardere nei cuori altrui.
Ma a questo punto non ho altra scelta. L’amore si avvicina, inevitabile come l’apocalisse di cui Garrison stava parlando a Mitchell a cena: e questo perché, naturalmente, sono la stessa cosa.
Garrison lasciò Mitchell davanti al ristorante, diede la serata libera al suo autista e si incamminò verso un appartamento che aveva acquistato, in un luogo di cui nessun altro era a conoscenza e che aveva un utilizzo ben preciso. Entrò, felice di trovare la temperatura molto più bassa del normale, il che significava che i rituali erotici della serata erano già iniziati. Non si recò subito in camera da letto nonostante l’eccitazione crescente. In salotto, si versò un drink e rimase in piedi davanti alla finestra, sorseggiando il liquore e assaporando l’attesa. Oh, se solo tutta la sua vita fosse stata ricca e reale com’era in quei momenti; carica di significato e di emozioni. Domani, lo sapeva, avrebbe provato una punta di disprezzo per se stesso e si sarebbe comportato come un perfetto figlio di puttana con chiunque gli fosse capitato a tiro. Ma quella sera? Quella sera, immerso nella consapevolezza di ciò che lo aspettava, era più vicino alla felicità di quanto potesse pretendere. Alla fine, posò il bicchiere senza aver bevuto molto e, allentandosi la cravatta, si diresse verso l’elegante camera da letto. La porta era socchiusa. Nella stanza brillava una luce. Garrison entrò.
La donna era sdraiata sul letto. Gli era stato detto che si chiamava Melodie (anche se lui dubitava che una donna disposta a vendere il suo corpo per quel genere di pratiche usasse il nome con cui era stata battezzata davanti a Dio). Giaceva perfettamente immobile sotto un lenzuolo, gli occhi chiusi. Sul cuscino attorno alla sua testa c’era una dozzina di gigli bianchi e gialli; un delizioso tocco funerario aggiunto dall’uomo che organizzava quelle serate per Garrison, Fred Platt. Il profumo dei fiori non era abbastanza forte da competere con l’altro odore che permeava la stanza, quello del disinfettante. Anche quella era una trovata di Platt, quell’aroma di pino: un profumo che in un primo istante Garrison aveva trovato in parte inquietante, dal momento che spingeva le sue fantasie ancora più vicino alla dura realtà. Ma Platt conosceva bene la psiche di Garrison: quella prima volta con l’aroma acre del disinfettante che gli pungeva le narici era stata una vera e propria rivelazione erotica. Ora quel profumo era una parte indispensabile della sua fantasia.
Si avvicinò ai piedi del letto e rimase fermo, lo sguardo fìsso sulla donna, a studiare il suo corpo in cerca della traccia di un brivido. Ma riuscì a scorgere solo un lievissimo tremore che la donna stava chiaramente cercando di reprimere. Meglio per lei, pensò; era una professionista. Garrison ammirava il professionismo in tutte le sue forme: dagli affari in borsa, alla cucina, all’imitazione della morte. Se ne valeva la pena, come era solita dire Loretta, allora valeva la pena farlo bene.
Allungò una mano e fece scivolare il lenzuolo da sotto le mani di Melodie, che la ragazza teneva incrociate sul petto. Sotto era nuda, il corpo reso pallido dal trucco in modo che la sua pelle avesse una sfumatura cadaverica.
“Stupenda”, disse lui, senza alcuna traccia di ironia.
Era davvero una vista incantevole: i seni piccoli, i capezzoli eretti e induriti dal freddo. I peli pubici erano stati tagliati con cura, in modo da lasciargli intravedere le labbra della vagina che lui ben presto avrebbe leccato.
Ma prima, i piedi. Tolse completamente il lenzuolo e lo lasciò cadere sul pavimento. Poi si inginocchiò in fondo al letto e premette le labbra sulla carne della donna. Era fredda perché era rimasta sdraiata su un letto di ghiaccio sigillato nella plastica. Le baciò le dita, poi le piante dei piedi, mentre le accarezzava con le mani le caviglie sottili. Ora che aveva la pelle della donna contro la sua, poteva sentire i tremiti sepolti nei suoi tessuti, ma non erano violenti abbastanza da distrarlo dalla sua illusione. Non era molto difficile credere che fosse morta. Morta e fredda e incapace di resistere.
Non continuerò con questa descrizione; non ce n’è bisogno. Se qualcuno di voi desidera immaginarsi Garrison Geary intento a godere di una donna che si finge morta, deve solo evocare questa immagine. Per il resto di noi, basti sapere che quello era il suo piacere particolare, la gioia che attendeva con maggior trepidazione. Non posso dirvi perché. Non so quale strano sentiero avesse intrapreso la sua psiche da rendere così eccitante quel rituale per lui. Ma era così; ed è lì che lo lasceremo, intento a coprire di baci un finto cadavere, preparandosi a un atto di cosiddetto amore.