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Abbiamo mangiato insieme quel giorno, non nella sala da pranzo, troppo grande per due sole persone (talvolta mi chiedo che genere di ospiti Cesaria avesse avuto in mente di invitare), ma in cucina. Pollo in gelatina e focaccine all’erba cipollina e ai semi di sesamo, seguiti dalla specialità di Dwight in materia di dolci: una torta fatta di strati di mandorle e cioccolato, servita con una dolce panna montata. (Dwight deve la sua abilità di cuoco a Zabrina, ne sono certo. Il suo repertorio di dolci è straordinario: ogni genere di frutta candita, torrone, praline e ogni possibile meraviglia letale per i denti.)

“Ho visto Zabrina, ieri”, ha detto, servendomi un’altra fetta di torta.

“Le hai parlato?”

“No. Aveva quell’espressione da non vi avvicinate. Sa com’è fatta.”

“Hai intenzione di restare lì a guardarmi mentre mi ingozzo come un maiale?”

“Sono così pieno che non credo che riuscirò a stare sveglio, oggi pomeriggio.”

“Che male c’è nel fare una piccola siesta? È una vecchia tradizione del Sud. Quando fa caldo, si sonnecchia finché l’aria non si rinfresca.” Ho sollevato lo sguardo dal mio piatto e mi sono accorto che Dwight aveva un’espressione cupa sul volto. “Cosa c’è che non va?”

“Non mi piace più dormire quanto mi piaceva una volta”, ha risposto a bassa voce.

“Come mai?” gli ho domandato.

“Faccio brutti sogni…” ha risposto lui. “No, non brutti. Dolorosi. Sogni dolorosi.”

“Su cosa?”

Dwight ha scrollato le spalle. “Non saprei dirlo con esattezza. Molte cose. Gente che conoscevo quand’ero piccolo.” Ha tratto un profondo respiro. “Stavo pensando che forse dovrei tornare là fuori… sa… da dove sono venuto.”

“Per sempre?”

“Oh, Signore, no. Io appartengo a questo posto e sarà sempre così. No, tornare là fuori ancora una volta per vedere se i miei sono ancora vivi, e se sì a dirgli addio.”

“Staranno invecchiando.”

“Non sono loro che stanno per andarsene, signor Maddox, e lo sappiamo entrambi. Siamo noi.” Ha raccolto con il dito la panna montata rimasta sul suo piatto e se l’è portata alla bocca. “Sono questi i sogni che faccio. Sogno di noi che ce ne andiamo. Di tutto che se ne va.”

“Hai parlato con Marietta?”

“Ogni tanto.”

“No, voglio dire di questo.”

Lui ha scosso la testa. “No è la prima volta che ne parlo con qualcuno.”

È seguito un silenzio innaturale. Poi ha aggiunto: “Che cosa ne pensa?”

“Dei sogni?”

“Dell’idea di andare a trovare i miei eccetera.”

“Penso che dovresti andare.”

2

Anche se ho cercato di seguire il mio stesso consiglio e di fare la siesta quel pomeriggio, la mia testa, nonostante la malinconia della mia breve chiacchierata con Dwight — o forse proprio a causa di essa — ronzava come un alveare in piena attività. Mi sono ritrovato a pensare a certi paralleli che esistevano tra famiglie del tutto diverse sotto ogni altro aspetto. I familiari di Dwight Huddie che vivevano in un parcheggio di roulotte, da qualche parte nella contea di Sampson: si erano mai chiesti cosa ne fosse stato di lui, che avevano perso in un luogo che non avrebbero mai visto, in un luogo di cui non avrebbero mai conosciuto l’esistenza? Avevano mai pensato di andare a cercarlo in tutti quegli anni, o per loro era come morto, proprio come Galilee lo era per Cesaria? E poi c’erano i Geary. Quella famiglia, nonostante tutta la sua celeberrima classe, aveva a suo tempo amputato alcuni dei suoi figli come membra infettate dalla cancrena. Di nuovo: come morti. Ero sicuro che continuando avrei trovato legami come quelli in altre parti di questa storia: modi in cui i dolori e le crudeltà di una stirpe riecheggiavano nell’altra.

Il problema che dovevo ancora affrontare e che fino a quel momento avevo evitato era come meglio spiegare quei collegamenti. La mia mente era piena di possibilità ma non avevo ancora capito come tutto quello che sapevo sarebbe stato ordinato e raccontato; non avevo alcuna idea di quale sentiero seguire.

Per distrarmi dall’ansia, ho fatto una lenta esplorazione della casa. Erano trascorsi molti anni dall’ultima volta che l’avevo visitata, stanza dopo stanza, e dovunque guardassi i miei strani occhi nuovamente curiosi venivano ricompensati. Tutt’attorno a me c’erano lo straordinario gusto di Jefferson e la sua passione per i dettagli, sposati a una selvaggia libertà espressiva che, ne sono sicuro, apparteneva a mia madre. È una stupefacente combinazione: rigore jeffersoniano e virtuosismo barbarossiano; una costante lotta di desideri che crea forme e volumi completamente diversi da qualunque altra cosa abbia mai visto prima. Il grande studio, per esempio, ora caduto in disuso, che sembrava il modello perfetto di un luogo austero dedicato all’indagine intellettuale finché l’occhio non raggiungeva il soffitto dove crescevano potenti colonne elleniche, che porgevano un raccolto di frutti ultraterreni. La sala da pranzo, dove il pavimento era composto da un disegno così favoloso di piastrelle di marmo da sembrare una grande piscina di acqua verde mare. Una lunga galleria di alcove ad arco, ciascuna delle quali conteneva un bassorilievo illuminato con tale perfezione che le scene stesse sembravano proiettare una particolare lucentezza. Non c’era niente, mi sembrava, che fosse stato lasciato al caso; ogni forma, anche la più minuta, era stata progettata per disegnare una schema più ampio, proprio come lo schema stesso non faceva che riportare l’occhio a ogni dettaglio. Era tutto un unico glorioso invito: al piacere della vista, sì; ma anche alla calma certezza del proprio posto in tutto questo, al semplice piacere di essere lì in quel momento, a sentire l’aria che fluiva tra le stanze e accarezzava il volto, o a godere dei riflessi della luce su una parete. Più di una volta mi sono ritrovato gli occhi pieni di lacrime semplicemente per la bellezza di una stanza, per poi scoprirmi calmato dalle lacrime da quella stessa bellezza che voleva soltanto la mia felicità.

Detto questo, bisogna aggiungere che la casa era tutt’altro che priva di difetti. Gli anni e l’umidità cominciano a pesare; forse nemmeno una stanza è riuscita a sfuggire al decadimento e alcune — soprattutto quelle più vicine alla palude — sono in condizioni così misere che ho dovuto costringere Dwight a portarmici in braccio perché i pavimenti erano troppo marci per la mia sedia a rotelle. Persino quelle camere, dovrei dire, avevano un innegabile tocco di grandeur. La putrefazione che si allarga sulle pareti le fa assomigliare a carte nautiche di mondi ancora senza nome; le piccole foreste di funghi che crescono sulle assi fradice del pavimento hanno un loro bizzarro fascino. Dwight non era molto convinto. “Questi sono posti cattivi”, ha osservato, certo che il loro stato di deterioramento fosse dovuto a qualche male dello spirito che le aveva colpite. “Sono accadute cose cattive, qui.”

Quest’ultima affermazione non mi sembrava avere molto senso, e gliel’ho detto. Se le pareti di una stanza erano marce e quelle di un’altra no era solo a causa di qualche infiltrazione d’acqua; non si trattava della dimostrazione di un karma negativo.

“In questa casa”, ha ribattuto Dwight, “è tutto collegato.” Non ha voluto aggiungere altro sull’argomento ma immagino che fosse abbastanza chiaro. Proprio come io ero arrivato ad apprezzare il modo in cui la casa oscillava tra lo spirito e la vista, così Dwight mi stava spiegando che c’era una connessione tra la condizione fisica e quella morale dell’Enfant.

Aveva ragione, naturalmente, anche se allora non riuscivo a capirlo. La casa non era semplicemente uno specchio del genio di Jefferson e della visione di Cesaria: era un ricettacolo di tutto ciò che aveva contenuto. Il passato era ancora presente lì, in modi che i miei sensi limitati dovevano ancora afferrare.