Il serpente di Inanna si svegliò e si mosse sul suo seno, fece guizzare la lingua, fissò i suoi occhi su di me, e io ebbi paura. Sentivo la presenza della Dea tutt’intorno a me, intensa e paralizzante.
Mi avvicinai al gentile Ur-kununna e sussurrai: «Mio padre è morto?»
«Non si può parlare, figliolo».
«Per favore. È morto? Dimmelo».
Ur-kununna mi guardò dall’alto del suo enorme corpo e io vidi la luce bianca della saggezza splendere nei suoi occhi, la sua tenerezza e il suo amore per me, e pensai quanto i suoi occhi fossero simili a quelli di Lugalbanda, quanto fossero grandi e scuri, quanto gli riempissero tutta la fronte! Disse con gentilezza: «Si, tuo padre è morto».
«E che cosa significa essere morto?»
«Non si può parlare durante la cerimonia».
«Inanna era morta quando scese negli Inferi?»
«Per tre giorni, si».
«Ed era come essere addormentati?»
Il vecchio sorrise e non disse niente.
«Ma poi lei si svegliò e ritornò, e ora è davanti a noi. Mio padre si sveglierà? Tornerà a governare Uruk, Ur-kununna?»
Ur-kununna scosse il capo.
«Si sveglierà, ma non tornerà a governare Uruk».
Poi portò un dito alle labbra, e non parlò più, lasciandomi a riflettere sul significato della morte di mio padre, mentre la cerimonia continuava intorno a me.
Lugalbanda non si muoveva, non respirava, aveva gli occhi chiusi. Era simile al sonno. Ma doveva essere più del sonno. Era la morte. Quando Inanna fu uccisa e andò negli Inferi, ci fu un grande sgomento in cielo, e Padre Enki la fece tornare in vita. Padre Enki avrebbe riportato in vita Lugalbanda? No, non lo credevo. Dove era allora Lugalbanda, dove sarebbe andato in seguito?
Ascoltai i canti ed ebbi la risposta: Lugalbanda era in cammino verso il Palazzo degli Dei, dove avrebbe vissuto per sempre in compagnia del Padre del Cielo, An, di Padre Enlil, di Padre Enki il Saggio e il Misericordioso, e di tutti gli altri. Avrebbe banchettato alla mensa degli Dei, e bevuto con loro il vino dolce e la birra scura. E pensai che non era un destino triste, se si stava recando veramente al Palazzo degli Dei.
«Ma come potevamo essere sicuri che era lì che stava andando? Come potevamo essere sicuri? Mi girai di nuovo verso Ur-kununna, ma l’Arpista aveva gli occhi chiusi, cantava e oscillava. Perciò restai solo con i miei pensieri di morte e con i miei sforzi, per capire che cosa stesse accadendo a mio padre.
Poi i canti cessarono, Inanna fece un gesto, e una decina dei Signori della città si inginocchiarono e sollevarono sulle spalle la massiccia lastra di alabastro su cui era disteso mio padre, e la portarono fuori dal Tempio attraverso l’ingresso laterale. Noi li seguimmo: mia madre ed io aprivamo la processione, mentre la Sacerdotessa Inanna era in fondo.
Attraversammo la Piattaforma Bianca, scendemmo i gradini più lontani, percorremmo un centinaio di passi verso occidente, finché non ci trovammo nell’ombra netta del Tempio di An. Vidi che era stata scavata una grande fossa nella terra sabbiosa e asciutta tra la Piattaforma Bianca e il Tempio di An. Un pendio conduceva nella fossa. Ci raccogliemmo intorno all’imbocco del pendio, e tutti gli abitanti della città formarono un grande cerchio intorno ai Recinti Sacri.
Poi accadde un fatto inaspettato: le cameriere della Regina circondarono mia madre e cominciarono a spogliarla dei suoi abiti lussuosi e preziosi, ad uno ad uno, finché non restò nuda nella violenta luce del giorno, davanti a tutta la città. Pensai alla storia della discesa di Inanna che, mentre scendeva sempre più in profondità negli Inferi, abbandonava i suoi abiti fino a restare nuda. Mi chiesi se anche mia madre si stesse preparando a scendere nella fossa. Ma non era così. La dama di compagnia, Alitum, che somigliava tanto a mia madre Ninsun da sembrare sua sorella, si fece avanti e si tolse i vestiti, cosicché anche lei restò nuda. Le cameriere cominciarono a far indossare ad Alitum il mantello cremisi di mia madre, la (sua acconciatura e i pettorali, e i vestiti più semplici di Alitum a mia madre. Quando ebbero terminato, sarebbe stato difficile dire chi fosse Ninsun e chi Alitum, perché il viso di Alitum era stato dipinto di verde proprio come quello di mia madre.
Poi vidi un mio compagno di giochi, Enkihegal, il figlio del giardiniere Girnishag, camminare lentamente verso di me, affiancato da due Sacerdoti. Lo chiamai. Ma lui non rispose. Aveva gli occhi vitrei e strani. Non parve riconoscermi, sebbene solo il giorno prima avessi corso con lui da un Iato all’altro del grande cortile Ninhursag, otto volte senza mai fermarci.
I Sacerdoti cominciarono poi a togliermi di dosso l’abito di broccato: quando mi ebbero spogliato, vestirono Enkihegal con il mio vestito, e a me diedero il suo. Mi privarono della fascia d’oro che avevo intorno alla fronte e la misero intorno alla sua. Ero alto quanto lui, sebbene egli avesse tre anni più di me, e le mie spalle erano ampie quanto le sue. Quando lo scambio di abiti fu terminato, i Sacerdoti lasciarono Enkihegal al mio fianco, così come Alitum era accanto a mia madre.
Allora avanzò un carro trainato da due asini. Era decorato di mosaici blu, rossi e bianchi lungo i bordi dell’intelaiatura, e aveva teste dorate di leoni sui pannelli laterali con criniere di lapislazzuli e madreperla, e su di esso era ammucchiato un grande tesoro. Poi l’auriga Ludingirra, che aveva accompagnato molte volte mio padre in guerra, si fece avanti. Bevve un sorso da un’enorme coppa di vino che i Sacerdoti erano andati a prendere, fece uno schiocco con la bocca e scosse la testa, come se il vino fosse amaro. Salì sul carro e lo guidò lentamente nella profonda fossa. Due stallieri camminavano ai lati del carro per tenere fermi e calmi gli asini. Quindi seguirono un secondo e un terzo carro, e ciascuno degli auriga e degli stallieri bevve un sorso del vino. Nella fossa entrarono vasi di rame, argento, ossidiana, alabastro e marmo, tavole da gioco e bicchieri, calici, una serie di scalpelli e seghe d’oro, e una grande quantità di oggetti, tutti magnifici. Poi i guerrieri con l’armatura scesero nella fossa. Li seguirono alcuni dei servi del palazzo, i barbieri e i giardinieri, alcune delle belle cameriere, con i capelli legati da una treccia d’oro e l’acconciatura di cornaline, lapislazzuli e madreperla. Tutti bevvero un sorso del vino. Tutto avvenne in silenzio, si sentiva solo il costante tambureggiare del lilissu.
Dopodiché, un Grande Signore della città, che era tra coloro che avevano portato il catafalco di mio padre, andò al suo fianco. Prese la corona con le corna che gli era accanto, la sollevò in alto e la mostrò a tutti, splendente ai raggi del sole. Mi è proibito scrivere il nome che aveva allora quel Signore, perché in seguito è diventato Re di Uruk, e non si può né scrivere né pronunciare il nome di nascita di chi è diventato Re. Il nome che assunse da Re era Dumuzi. E colui che sarebbe diventato Dumuzi tese la corona con le corna verso sud, verso est, verso nord e verso ovest, e poi la posò sul capo di mio padre, e un grande grido si alzò dal popolo di Uruk.
Solo un Dio porta la corona con le corna. Mi rivolsi a Ur-kununna e dissi: «Mio padre è un Dio ora?»
«Sì», disse piano il vecchio Arpista. «Lugulbanda è diventato un Dio».
Allora anch’io sono un Dio, pensai. Una sensazione vertiginosa ed eccitante mi riempì. O almeno — così mi dissi — sono in parte un Dio. Ma una parte di me doveva essere mortale, ipotizzai, visto che ero nato da carne mortale. Ciò nondimeno, il figlio di un Dio deve essere in parte, Dio, non è vero? Era un’impudenza da parte mia. Ma poi ho appreso che è veramente così, che io sono in parte un Dio, anche se non interamente.
«E se è un Dio, allora tornerà dalla morte come gli altri Dei che sono morti?», chiesi.
Ur-kununna sorrise e disse: «Queste cose non sono mai sicure, figliolo. Egli è un Dio, ma credo che non tornerà. Guardalo, salutato».
Vidi tre robusti stallieri e tre auriga alzare la lastra di alabastro e cominciare a scendere nella fossa con essa. Prima di sollevarla, avevano bevuto un sorso del vino amaro. Non uscirono dalla fossa, nessuno di quelli che vi era entrato ne uscì. Dissi ad Ur-kununna: «Che cos’è quel vino che bevono tutti?»