Prendere quel nome per regnare, era veramente strano. Perché la storia di Dumuzi è la storia di un Re sconfitto dalla Dea. Era quello il destino che voleva per sé il nuovo dominatore di Uruk? Forse aveva preso in considerazione solo la potenza del primo Dumuzi, e non il tradimento e la caduta per mano di Inanna. O forse non aveva preso in considerazione assolutamente niente di quella storia. Egli era Dumuzi, ed era il Re.
Quando il rito fu compiuto, il nuovo Re si mise alla testa della tradizionale processione al Palazzo per la fase finale della cerimonia di investitura, seguito da tutti gli alti dignitari della città. Anch’io ritornai al palazzo, ma solo per andare nella mia camera da letto.
Mentre dormivo, i Signori del regno offrirono doni a Dumuzi e posarono a terra al suo cospetto i loro distintivi e le altre insegne delle loro funzioni, per dargli il diritto di scegliere i propri funzionari. Ma la consuetudine prevedeva che tali cambiamenti non avvenissero mai il giorno dell’incoronazione, e perciò Dumuzi dichiarò, come tutti i Re avevano sempre dichiarato prima di lui: «Che ognuno riprenda la propria funzione».
Cionondimeno, i cambiamenti sarebbero giunti ben presto. Il più importante per me fu che mia madre ed io lasciammo il Palazzo Reale che era stato la mia casa fin dalla nascita, e stabilimmo la nostra residenza in una dimora splendida ma di gran lunga meno imponente, che si trovava nel quartiere di Kullab, ad occidente del Tempio di An. Fu al servizio di An che mia madre dedicò il resto della propria vita, come Capo Sacerdotessa. Adesso è una Dea di diritto, per mio decreto, in modo che si possa riunire a Lugalbanda. Perché se mio padre è in cielo, è opportuno che lei sia al suo fianco. E benché abbia detto di non essere certo che egli sia in cielo, può darsi che lo sia, e in questo caso avrei mancato di fare il mio dovere se non avessi mandato Ninsun a raggiungerlo.
Fu difficile per me capire perché fossi stato costretto a lasciare il Palazzo.
«Dumuzi è il Re adesso», mi spiegò mia madre. «L’assemblea ha scelto lui, e la Dea lo ha riconfermato. Il Palazzo gli appartiene».
Ma le sue parole erano soffi di vento asciutto sulla pianura. Dumuzi poteva essere Re, per quello che m’importava, ma il Palazzo era la mia casa.
«Torneremo al palazzo quando Inanna manderà Dumuzi negli Inferi?» chiesi, e lei prese un’espressione severa e mi disse di non ripetere mai più quelle parole. Ma poi con voce più dolce disse: «Sì, penso che un giorno tu tornerai a vivere nel Palazzo».
Dumuzi era giovane, forte e vigoroso, e proveniva da una delle più grandi famiglie di Uruk, un Clan che aveva occupato a lungo la funzione sacerdotale nel Tempio di Inanna, la funzione di supervisione della pesca, e molti altri incarichi importanti. Era bello e aveva un portamento regale, aveva capelli folti e una barba imponente.
Ma c’era qualcosa di molle e sgradevole in lui, e io non capivo perché fosse stato scelto per diventare Re. Aveva gli occhi piccoli e opachi, le labbra erano carnose, e la sua pelle sembrava quella di una donna. Immaginavo che la strofinasse con gli olii tutte le mattine. Lo disprezzai fin dal primo giorno del suo regno. Forse lo odiavo solo perché era diventato Re al posto di mio padre; ma credo che non fosse solo per questo. Ad ogni modo, adesso non nutro nessun odio per lui. Per lo sciocco Dumuzi provo solo pietà: più di qualsiasi altro di noi, egli fu il giocattolo degli Dei.
3
Poi la mia vita cambiò. I miei giorni di gioco erano finiti, e cominciarono i miei giorni di scuola.
Poiché ero un Principe della stirpe di Enmerkar e di Lugalbanda, non dovevo frequentare la comune Casa delle Tavole, dove i figli di mercanti, di capomastri e di amministratori del Tempio, studiano per diventare scribi. Invece mi recavo ogni giorno in una piccola stanza dal soffitto basso che si trovava in un tempietto antico ad oriente della Piattaforma Bianca, dove un Sacerdote dal cranio e dal viso rasi, insegnava ad una piccola classe di otto o nove bambini di alto lignaggio. I miei compagni di classe erano i figli dei Governatori, degli Ambasciatori, dei Generali e degli Alti Sacerdoti, e avevano una grande stima di sé stessi. Ma io ero il figlio di un Re.
Questo mi creò difficoltà. Ero abituato al privilegio e alla precedenza, e chiedevo dì avere i miei soliti diritti. Ma nell’aula non avevo diritti, ero alto e forte, ma non ero né il più alto né il più forte, perché qualcuno dei bambini aveva quattro o cinque anni più di me. Le prime lezioni che imparai furono dolorose.
Erano due i miei principali torturatori. Uno era Birhurturre, il figlio di Ludingirra, che era stato il Maestro dei Carri di mi padre e che era sceso nella fossa funebre per dormire al suo fianco. L’altro era Zabardi-bunugga, il figlio di Gungunum, Alto Sacerdote di An. Penso che Big-Hurturre, nutrisse rancore nei miei confronti perché suo padre era dovuto morire quando era morto mio padre.
Quale fosse la causa della rabbia che aveva Zabardi-bunugga verso di me, non lo capii mai completamente: forse derivava da un’antica gelosia che suo padre aveva provato per Lugalbanda. Ma quei due erano decisi, qualsiasi fosse la ragione, a dimostrarmi che la mia posizione elevata e i miei privilegi erano finiti quando la corona era passata al Re Dumuzi.
Nell’aula presi posto nella sedia che era in prima fila. Era mio diritto stare davanti agli altri. Bir-hurturre disse: «Quella sedia è mia, figlio di Lugalbanda».
Il modo in cui disse figlio di Lugalbanda, lo fece sembrare figlio di una mosca stercoraria.
«La sedia è mia», gli dissi con calma. Mi sembrava così palese che non mi sembravano necessarie né una difesa né una spiegazione.
«Ah. Allora la sedia deve essere tua, figlio di Lugalbanda», rispose con un sorriso.
Quando tornai dall’intervallo di mezzogiorno, scoprii che qualcuno era sceso al fiume e aveva catturato una rana gialla e l’aveva infilzata sulla mia sedia. Non era ancora morta. Su un fianco dell’animale qualcuno aveva disegnato la faccia dello Spirito Malvagio Rabisu, colui-che-si-accuccia-sulla-soglia, e sull’altro fianco era disegnato Imdugud, l’Uccello-Tempesta, con la lingua fuori.
Liberai la rana e mi girai verso Bir-hurturre con l’animale in mano.
«A quanto pare, hai lasciato la tua colazione sulla mia sedia», dissi. «Tieni, questo è per la tua merenda, non per la mia».
Lo afferrai per i capelli e spinsi la rana verso la sua bocca.
Bir-hurturre aveva dieci anni. Sebbene non fosse più alto di me, aveva spalle ampie ed era molto forte. Afferratomi il polso, mi staccò la mano dai suoi capelli e me la torse contro un fianco. Nessuno mi aveva mai trattato così. Sentii la rabbia salirmi dentro come un torrente invernale che scorre impetuoso.
«Non vuole dividere la sedia con suo fratello?», chiese Zibardi-bunugga, che guardava divertito.
Mi liberai dalla stretta di Bir-hurturre e lanciai la rana contro la faccia di Zabardi-bunugga.
«Mio fratello?», gridai. «Tuo fratello! Il tuo gemello!»
In realtà, Zabardi-bunugga era spaventosamente brutto, con un naso piatto come un bottone, e strani capelli crespi che crescevano in radi ciuffi.
Mi assalirono immediatamente. Mi bloccarono le braccia dietro la schiena, mi derisero e mi presero a ceffoni. Non ero mai stato trattato con tale mancanza di rispetto nel Palazzo, nemmeno nei giochi più violenti: nessuno avrebbe osato.
«Non potete toccarmi!», gridai. «Vigliacchi! Maiali! Non sapete chi sono?»
«Sei Bugal-lugal, figlio di Lugal-bugal», disse Bir-hurturre, ed entrambi risero come se avesse detto qualcosa di molto intelligente.
«Sarò re un giorno!»
«Bugal-lugal! Lugal-bugal!»
«Vi spezzerò in due! Vi darò in pasto al fiume!»
«Lugal-bugal-lugal! Bugal-lugal-lugal!»