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Feci al mio! maestro questa domanda, e lui mi fece frustare sulle nocche per averla fatta.

Appresi altre cose che mi confusero e mi spaventarono. Erano le storie e le leggende sugli Dei, le stesse che l’Arpista Ur-kununna suonava un tempo nel cortile del Palazzo. Ma, in qualche modo, quando i racconti uscivano dalla bocca di quel vecchio dolce e gentile, illuminavano la mia anima di una luce calda di piacere. Mentre, quando li sentivo narrare dalla voce secca e precisa del maestro dal viso rigido, si trasformavano in cose oscure e sconvolgenti.

Ur-kununna faceva sembrare gli Dei giocherelloni, benevoli e saggi; invece, nelle narrazioni del maestro, gli Dei apparivano stupidi, spietati e crudeli. Eppure erano gli stessi Dei, le stesse storie, le stesse parole. Che cosa era cambiato? Ur-kununna cantava gli Dei che amavano, banchettavano e creavano la vita. Il maestro invece ci parlava di Dei attaccabrighe, litigiosi, poco affidabili, che oscuravano il mondo senza cura e senza misericordia. Ur-kununna viveva nella gioia, e si era incamminato verso la morte senza lamentarsi, perché sapeva di essere amato dagli Dei. Il maestro mi insegnava che i mortali devono vivere la loro vita nella paura infinita, perché gli Dei non sono buoni.

Eppure erano gli stessi Dei: il saggio Enki, il superbo Enlil, la bella Inanna. Ma il saggio Enki aveva creato la vecchiaia per noi, e la debolezza della carne. Il superbo Enlil, nella sua lussuria insaziabile, aveva violentato la giovane Dea Ninlil, sebbene la ragazza gridasse di dolore, e le aveva fatto generare la Luna. La bella Inanna, per liberarsi dagli Inferi, aveva venduto il marito Dumuzi ai Demoni. Gli Dei, allora, non sono migliori di noi: sono altrettanto gretti, egoisti, superficiali. Come era possibile che non avessi notato queste cose, quando ascoltavo l’Arpista Ur-kununna? Era solo perché ero troppo giovane per capire? Oppure, nel calore delle sue canzoni, le azioni dei divini prendevano un aspetto diverso?

Il mondo che mi svelò il maestro era un mondo desolato e rischioso. E c’era solo una via di fuga da quel mondo, in un aldilà che era ancora più crudele e terrificante. Che speranze c’erano, allora? Che speranze per ognuno di noi, Re o mendicante? Questo avevano fatto gli Dei per noi, e gli stessi Dei sono altrettanto vulnerabili e paurosi: pensate ad Inanna, spogliata nella sua discesa negli Inferi, nuda davanti alla Regina degli Inferi. Mostruoso! Mostruoso! Non c’è speranza, pensai, né qui né altrove.

Pensieri gravi per un bambino così piccolo, anche per un bambino che è figlio di Re, ed è per due terzi Dio e solo per un terzo mortale. Ero pieno di disperazione. Un giorno andai da solo nella zona della città che costeggia il fiume, guardai oltre le mura e vidi i corpi che galleggiavano sull’acqua: erano i cadaveri di coloro che non potevano permettersi la sepoltura. E, pensai, è sempre lo stesso, mendicante o Re, Re o mendicante, e non c’è alcun senso in niente. Pensieri oscuri! Ma, dopo qualche tempo, li allontanai dalla mente. Ero un bambino. Non avrei potuto riflettere per sempre su un soggetto simile.

In seguito, vidi la verità all’interno della verità; se gli Dei sono spietati e capricciosi come noi, allora noi possiamo essere potenti come gli Dei. Ma questa lezione l’avrei imparata molto tempo dopo.

4

Poiché nelle mie vene scorre sangue divino, crebbi rapidamente e raggiunsi una struttura e una forza straordinarie. Quando avevo nove anni, ero più alto di tutti i bambini della piccola scuola del Tempio, e non avevo più problemi con i tipi come Bir-hurturre e Zabardi-bunugga. In realtà, vedevano in me il loro capo, giocavano ai giochi che decidevo io, e mi davano il primo posto in tutto. L’unica differenza tra noi era che loro avevano i peli sul corpo e sulle guance e io non li avevo.

Andai da un saggio nella regione di Kullab e comprai da lui, per novanta se d’argento e mezzo sila di buon vino, una pozione fatta di radici polverizzate di ginepro, succo di cassia, antimonio, limetta e altre cose che dovevano servire ad affrettare l’inizio della virilità. Strofinai quella roba sotto le braccia e sul ventre. La pozione bruciava come mille diavoli. Ma ben presto i peli mi spuntarono folti come sul corpo di un guerriero.

Dumuzi avviò campagne militari contro Aratta, contro la città di Kish, e contro la selvaggia tribù dei Martu del deserto. Io ero troppo giovane per prendere parte a queste guerre, ma già mi addestravo ogni giorno nella pratica del giavellotto, della spada, della clava e dell’ascia. A causa della mia corporatura, gli altri bambini avevano paura di combattere contro di me nel campo di addestramento, e fui costretto a fare pratica con i ragazzi.

Un giorno, mentre duellavo con l’ascia con un guerriero di nome Abbasagga, gli spaccai in due lo scudo con un sol colpo: il giovane gettò l’arma a terra e corse via dal campo. Dopodiché per me fu difficile trovare degli avversari, anche tra gli uomini. Per qualche tempo me ne andai per conto mio a studiare l’arte dell’arco e della freccia, sebbene quest’arma sia usata solo dai cacciatori, e non dai guerrieri. Il primo arco fatto per me era troppo debole, e lo spezzai quando cercai di tenderlo. Poi comprai un arco formato da parecchi legni abilmente incollati: cedro, gelso, abete e salice, che servì meglio al mio scopo. Ce l’ho ancora.

Un’altra cosa che appresi fu l’arte di costruire. Studiai il miscuglio di resina e malta con cui si fa il bitume e altri tipi di pece, la fattura dei mattoni, l’intonacatura e la pittura delle pareti, e molte altre cose umili. Nel calore del giorno lavoravo e sudavo tra gli artigiani per imparare meglio il mestiere.

Uno dei motivi per cui lo feci, fu che è nostra abitudine educare i Principi ad attività simili, in modo che possano ricoprire appropriatamente il primo ruolo nella costruzione e nella consacrazione di nuovi edifici e mura. In altri paesi, lo so, Principi e Re non fanno nient’altro che cavalcare, andare a caccia e divertirsi con le donne, ma qui le cose non vanno in quésto modo.

Al di sopra e aldilà delle responsabilità che mi aspettavo di assumere un giorno, comunque, io provavo un grande piacere nell’impadronirmi di questi mestieri. Fare mattoni e metterli uno sull’altro per formare un muro mi dava un forte senso di compimento, intenso quanto quello che ho provato nel compiere azioni più eroiche, in un certo senso più forti, forse. E c’è qualcosa di voluttuoso nel fare mattoni, nel mescolare l’argilla e la paglia, nel premere l’argilla umida nella forma, nel rimuoverne l’eccesso con il dorso della mano.

Naturalmente, ci sono altre e più ovvie fonti di piacere, e altre sensazioni più direttamente voluttuose. Cominciai presto anche l’educazione in questo campo.

La mia prima maestra fu una piccola guardiana di capre dagli occhi strabici, che incontrai nella Strada dello Scorpione un giorno di fine inverno. Avevo dieci o undici anni e lei, credo, doveva averne un po’ di più, visto che aveva il seno e i peli. Mi chiese un pezzetto della treccia d’oro che portavo tra i capelli, e io le dissi: «Vieni con me.»

In una cantina buia, su un mucchio di vecchia paglia umida, la bambina si guadagnò la treccia, sebbene quello che facemmo fosse più una lotta che un accoppiamento. Non sono nemmeno sicuro che la penetrai quel giorno, tanto inesperto ero. Ma ci incontrammo altre due o tre volte, e so che in quelle occasioni compimmo il vero atto. Non le chiesi mai il suo nome né le dissi il mio. Puzzava di latte e di orina di capra, e aveva un viso grossolano e la pelle macchiata.

Si contorceva e si dimenava tra le mie braccia come un viscido animale del fiume. Ma, quando l’abbracciavo, mi sembrava bella come Inanna, e il piacere che mi dava mi colpiva come il fulmine di Enlil. Così fui iniziato al grande mistero, un po’ prima di quanto dovrebbero accadere queste cose, e in una maniera molto irregolare.