«Nossignore» disse Tuttle. «L’osservatorio continuerà a funzionare come al solito. Tutto il personale ha firmato un impegno alla segretezza, e tutti sono stati informati della necessità di tenere queste notizie assolutamente segrete. Deve firmare anche lei.»
«No, non firmerò» ribatté Stoner. «All’osservatorio io sono un semplice consulente. È la NASA che mi paga lo stipendio, non la marina.»
«Dottor Stoner, lei fa parte della riserva dell’aviazione. Potrebbe essere richiamato in servizio attivo. Ci troviamo in una circostanza straordinaria. Un’emergenza vera e propria.»
McDermott sorrise. «Probabilmente la spediranno in Groenlandia. O forse al Polo Sud.»
«Se è disposto a collaborare» continuò Tuttle «la sistemeremo qui, in questa casa. Per un po’ non deve avere contatti col mondo esterno, finché l’intero progetto non sarà trasferito a una base più sicura, sotto il controllo diretto del governo.»
Stoner capì in quel momento di essere completamente nelle loro mani. Era inutile discutere.
Con un’occhiata all’orologio, Tuttle disse: «Devo tornare a Washington. Ho un sacco d’impegni. Dottor Stoner, spero che comprenda la serietà della situazione.»
Senza attendere risposta, il piccolo ufficiale della marina uscì dalla stanza. McDermott si alzò e lo seguì.
Stoner sprofondò sul divano, assalito da punte gelide di rabbia. Chiese a Thompson: «Jeff, sono pazzo io o sono pazzi loro?»
Con una scrollata di spalle, l’astronomo rispose: «Né l’uno né gli altri, forse. O forse siamo tutti pazzi. Non so; dati insufficienti.»
«McDermott è un fesso. Non può manipolare la gente a questo modo. Sta “usando” quel tizio. Quando la marina scoprirà cosa stanno effettivamente facendo…»
Thompson ebbe un sorriso stanco. «Quel tizio è la marina. E Big Mac non sta manipolando nessuno, a parte te. Noialtri abbiamo tutti firmato, tranquilli come agnellini.»
«Anche tu?»
«Sì, anch’io. Non posso permettermi di perdere il posto. Lo sai quante possibilità ha un radioastronomo di seconda categoria? Dovrei ricominciare da capo, e dal fondo.» Scosse la testa.
«E sei disposto a rinunciare alla libertà di pubblicare solo per conservare il posto all’università?»
«Senti, Keith, io ho tre figli da mantenere. E una moglie. E un cane che mangia quanto mia moglie.»
Stoner non disse nulla, ma pensò: “Io avevo una moglie e due figli, e se smetto di lavorare perderanno gli alimenti”.
Thompson gli diede una pacca sulla schiena. «Non fare quella faccia! Sono inconvenienti normali. Vedrai che la situazione si aggiusterà. Prima o poi, pubblicheremo.»
«Ma come diavolo ha fatto Big Mac a sapere tutto di me?» si chiese Stoner. «Chi lo ha informato del mio viaggio a Washington?»
«Hai chiesto a una delle segretarie di prenotarti il posto sull’aereo?»
«No. Mi sono tenuto alla larga da quelle. Lo sapevo già che l’avrebbero raccontato a McDermott. Ho fatto prenotare i posti da una studentessa… Come si chiama? È una alta, bella.»
«Jo Camerata?»
«Sì. Jo. Lei.»
Thompson fischiò piano. «Allora deve averlo detto a Big Mac. O, come minimo, a una segretaria.»
«Ma le avevo ordinato di non dire niente.»
Thompson scrollò le spalle, «E io che pensavo che ti stesse dando la caccia.»
«Cosa?»
«Ti ha messo addosso gli occhi da un pezzo. Sta sempre all’osservatorio, salta le lezioni, cerca di farsi notare da te.»
«Non fare lo scemo» disse Stoner. «È solamente una ragazzina.»
«Sì, una ragazzina» sorrise Thompson. «Ma stravede per te.»
7
E per quanto concerne gli occupanti degli UFO? Sembrano dividersi in due categorie, grandi e piccoli, con prevalenza per i primi. Gli umanoidi di Hopkinsville e molti di cui abbiamo testimonianza… sono molto simili, all’aspetto, al “piccolo popolo” della leggenda e della storia: elfi, folletti, eccetera. Vengono spesso descritte teste grosse, piedi affusolati e in genere, teste che s’innestano direttamente sulle spalle senza che appaia evidente la presenza del collo. Stando alle testimonianze gli umanoidi più grandi sono di dimensioni umane o leggermente maggiori, e in genere sono armoniosamente formati. Qualcuno li ha definiti belli. I più piccoli sono in genere descritti come alti poco più d’un metro…
Debbo quindi lasciare che sia il lettore a giudicare quale peso attribuire agli incontri ravvicinati del terzo tipo in rapporto all’intero problema degli UFO, sempre tenendo presente che in futuro potremmo scoprire che i casi di apparizioni di umanoidi sono la chiave dell’intero problema.
Kirill Markov socchiuse gli occhi al vento che spazzava la strada. Per quanti anni potesse vivere, non si sarebbe mai abituato al freddo. Il gelo gli si infilava sotto il cappotto, gli mordeva le ossa.
Maria stava parlando all’autista della macchina ferma accanto al marciapiede davanti al loro palazzo, e intanto Markov batteva i piedi e aspettava sulla porta. I vicini guardavano dalla finestra, naturalmente con la massima discrezione, ma Markov vedeva dietro le tende le loro ombre. E per quanto la macchina non avesse contrassegni particolari, tutti sapevano che era un’auto del governo. Markov intuiva il misto di curiosità e terrore che stava passando, come corrente elettrica, negli appartamenti.
«È il professore!»
«Lo portano via? In pieno giorno?»
«Vieni a vedere.»
«Anche sua moglie?»
«No, non mi piace.»
«Però non sembrano impauriti.»
«Allora forse non è come pensiamo.»
«Di solito arrivano di notte…»
«Bah! Io lo so come lavorano. Magari il professore “crede” che lo portino all’aeroporto o in qualche bella università. Forse ne è convinta anche sua moglie. Però guardalo bene, perché è l’ultima volta che lo vedi.»
«No!»
«È così che hanno portato via mio fratello Grisha. Gli hanno detto che lo trasferivano a Kharkov, per un nuovo lavoro. È partito col sorriso sulle labbra. E lo hanno sbattuto su un carro bestiame che lo ha portato diritto in Siberia. L’hanno tenuto lì per otto anni. Quando l’hanno rimandato a casa a morire, era un uomo distrutto.»
«Ma cosa potrebbe aver fatto il professore…?»
«È un pensatore. E pensare certe idee non conviene.»
Markov sorrise fra sé, immaginando le conversazioni sussurrate che correvano attorno a lui di appartamento in appartamento.
“No, vicini” avrebbe voluto dire. “Non è come pensate. Il governo mi stima per la mia capacità di pensare.”
Maria terminò di parlare all’autista, si rialzò, si girò verso Markov. Indossava solo l’uniforme di servizio, e a proteggere il suo corpo massiccio aveva soltanto una giacca sottile. Markov non aveva mai capito come facesse sua moglie a sopportare il freddo. Eppure i suoi piedi erano sempre iceberg, quando s’infilava a letto.
«Dai, vieni» gli urlò lei, impaziente.
Markov raccolse la valigia, scese le scale, afferrò la maniglia della portiera.
«Dietro» disse Maria. «Tu devi stare dietro.»
«Oh. Vedo.» Markov aprì la portiera posteriore, si bloccò. Maria gli era a fianco, con la solita espressione accigliata in viso.
Markov la fissò negli occhi. «Può… Può darsi che non ci rivedremo per parecchio tempo.»
Lei annuì, imperterrita.
«Be’… Abbi cura di te, Vecchia mia.»
«Anche tu» mormorò lei.
Markov le mise una mano sulla spalla e lei girò la testa, per lasciarsi baciare sulla guancia. Dopo un bacio frettoloso, lui salì sull’auto. Maria chiuse la portiera e l’autista accese il motore, che partì con un ululato orribile.