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Stoner cercava, per quanto gli era possibile, di evitarli. Restassero pure in soggiorno, purché non interferissero col suo lavoro. Escludeva dalla mente le loro voci rimbombanti e si concentrava sul compito di identificare l’orbita della nave spaziale, usando le fotografie di Big Eye e il computer per analizzarne il percorso.

“Dev’essere una nave spaziale” continuava a ripetersi. “Non può essere un oggetto naturale.”

McDermott si presentava lì con regolarità, e nemmeno le più spesse porte di quercia riuscivano a smorzare la sua voce profonda, echeggiante. Veniva spesso anche Tuttle, ma il piccolo vicecomandante era troppo preso dalla programmazione delle loro mosse per raccontare qualcosa a un semplice astrofisico.

Nonostante tutto, Stoner udì qualche frammento di quelle conversazioni. Il progetto aveva ormai un suo nome in codice; PROGETTO JUPITER. E le discussioni, in genere, vertevano sulla base da dare al PROGETTO JUPITER. McDermott continuava a urlare che era meglio Arecibo. Però, sempre più spesso, le altre voci gli contrapponevano un altro nome: Kwajalein.

«Cosa stai facendo?» chiese Jo.

Si mise a sedere sul letto e, per modestia, si tirò la coperta sul petto. Era una domenica di metà novembre, di primo mattino. La luce dell’alba entrava dalle finestre.

Jo era arrivata, come sempre, il venerdì sera, con una cartella piena di foto di Big Eye sotto il braccio. Recavano tutte la stampigliatura “Confidenziale” ed erano indirizzate a Stoner. Le foto erano state trasmesse, via laser, dal telescopio orbitale al Goddard Space Center della NASA, nel Maryland. Da lì erano passate, via cavo fotografico, al quartier generale della marina, sulla baia praticamente deserta di Boston. Ogni venerdì pomeriggio Jo andava a prenderle al palazzo grigio della marina e le portava a Stoner nel New Hampshire. E si fermava per il week-end.

Stoner sedeva al piccolo scrittoio d’acero che le guardie della marina gli avevano procurato, chino su un mucchio di fogli.

«Sto scrivendo una lettera» disse «a un mio vecchio amico. È stato mio insegnante. Un astrofisico, Claude Appert. Vive a Parigi.»

«È francese?» chiese Jo.

«Francese quanto la torre Eiffel.» Stoner terminò l’indirizzo sulla busta e si girò verso Jo. «Voglio che me la imbuchi quando torni a Cambridge.»

Lei inarcò le sopracciglia.

«Non mi permettono di spedire lettere da qui» spiegò Stoner. «Specialmente per l’estero.»

«Cosa gli hai scritto?»

Lui piegò due fogli sottili di carta e li infilò nella busta. «Gli chiedo se qualcuno degli astronomi europei ha captato segnali radio insoliti da Giove.»

«È una violazione dell’impegno alla segretezza, no?» domandò Jo.

Scuotendo la testa, Stoner rispose: «Non gli ho detto che abbiamo scoperto qualcosa. Gli chiedo solo se ha notizie.»

Jo disse: «La marina non permetterebbe…»

«Stammi a sentire» scattò lui. «Ci stanno usando, Jo. Non capisci? Usando. Abbiamo fatto una scoperta incredibile, e loro cosa fanno? Pensano solo a tenerla segreta e a cercare di sfruttarla a fini militari.»

«Ma…»

«Ma niente! Noi passiamo la vita a tentare di strappare tutti i segreti possibili all’universo, e loro ci trattano come se fossimo al loro servizio. Rubano le nostre scoperte e le trasformano in armi. Ci mettono da parte appena ne hanno voglia, appena decidono di dare un taglio ai finanziamenti per la ricerca. Persino il bestiame viene trattato meglio! Il governo spende più denaro per sovvenzionare la fottuta industria del tabacco, che provoca il cancro, di quanto non ne spenda per le ricerche sul cancro.»

«E questo cosa c’entra con i segnali radio?» chiese dolcemente Jo.

Stoner si era alzato per continuare la predica, scordandosi di essere nudo. «Appena scopriamo qualcosa che possa servire al loro potere, una nuova idea che li aiuti a tenere sotto controllo o a uccidere la gente, ci legano alla catena e non ci lasciano più lavorare a nient’altro.»

«Non viviamo in un mondo pacifico, Keith.»

«Questo lo so. Ma qual è la prima reazione di Tuttle alla possibilità che abbiamo scoperto vita intelligente? Nessun senso di meraviglia. E nemmeno curiosità. Nemmeno paura! Vogliono solo mettere le mani sulla tecnologia che gli alieni potrebbero possedere, per migliorare le loro armi.»

Jo non parlò.

«È per questo che vogliono nascondere la notizia a uomini come Sagan e Phil Morrison. Perché sono famosi a livello internazionale. Potrebbero convincere le Nazioni Unite o qualche altra organizzazione internazionale a creare un programma unico a livello mondiale. I militari non vogliono! Ecco perché mi hanno chiuso qui come un prigioniero. Ecco perché vogliono trasferire tutta quanta la loro maledetta operazione a una base militare segreta. Vogliono che questa faccenda resti un segreto.»

«Lo so.»

«Be’, io invece voglio svelare la verità» disse Stoner, agitando la busta. «Ecco a cosa serve questa lettera.»

«Keith, non farai altro che metterti in grossi guai.»

«Siamo già nei guai» ribatté lui «e finché riusciranno a tenere segreta questa faccenda, il mondo intero è nei guai.»

«Non so se devo imbucarla, Keith» disse Jo.

Stoner andò a sedersi sull’orlo del letto, accanto alla ragazza. «Imbucala. Non possono mettermi nei guai più di quanto non ci sia già. Ed è importante che l’intera comunità scientifica sappia cosa sta succedendo qui.»

Riluttante, Jo prese la lettera. Guardò l’indirizzo, poi si girò ad appoggiare la busta sul comodino, vicino alla borsetta.

Stoner non le disse che il secondo foglio era indirizzato all’autore del libro che aveva letto poche sere prima. Un linguista russo che aveva scritto un’interessante monografia sui possibili linguaggi extraterrestri: il professor Kirill Markov, di Mosca.

Trascorsero altre settimane, e Stoner continuò pazientemente a lavorare da solo, mentre nell’altra stanza proseguivano le discussioni.

“McDermott ci aveva promesso un inverno caldo” sorrise fra sé Stoner. “Sarà il primo d’aprile prima che ce ne andremo dal New England.”

Thompson portò l’inglese alla casa in un gelido mattino, uno di quei giorni del New England quando il sole splende in un cielo assolutamente azzurro, ma l’aria è una massa freddissima di correnti polari che arrivano dal Canada e fanno scendere sotto zero i termometri per giorni e giorni.

Da dentro, lo spettacolo era bellissimo: la luce abbagliante del sole che si rifrangeva sulla neve immobile, gli alberi che alzavano nel cielo di cristallo i rami nudi, Stoner, alzandosi, trascorse due minuti ad ammirare il panorama.

Poi scese subito in sala da pranzo e si mise a battere sulla tastiera del computer, esasperato perché i dati sulla nave spaziale erano tutti troppo recenti e non permettevano di individuarne con sicurezza il punto d’origine. Una zaffata d’aria fredda gli disse che qualcuno era entrato dalla porta sul retro della cucina.

Stoner non si prese il disturbo di alzare gli occhi. Il terminale cominciava a trasmettere le risposte alle sue ultime equazioni, stampando automaticamente, scrivendo sul foglio a una velocità follemente inumana, mentre numeri e simboli si concretizzavano più in fretta di quanto lui riuscisse a seguirli.

Jeff Thompson disse: «Ciao, Keith. Hai da fare?»

Stoner girò la poltroncina, con una risposta acida già pronta, ma vide che con Thompson c’era un uomo anziano.

«Keith, il professor Roger Cavendish.»

Stoner aveva davanti un uomo sulla sessantina, alto e inagrissimo, con pochi capelli bianchi, un viso ossuto, occhi infossati, sopracciglia folte. In cappotto e sciarpa, i guanti in una mano, l’uomo rivolse a Stoner un mezzo sorriso enigmatico.