«Resterà al progetto. Non lo vedrò più. Lei scriva la lettera.»
Deglutendo a fatica, McDermott ribatté: «Quando… Quando il progetto sarà terminato. Scriverò la lettera allora. C’è un sacco di lavoro che ci aspetta.»
«Comunque, può mandare lo stesso la lettera alla NASA. Subito. Resterò col progetto sino alla fine.»
A McDermott stava scoppiando la testa, «Non è così semplice, ragazza. Se si aspetta che io…»
«Farò quello che vuole» disse Jo. «Però, prima, scriva la lettera.»
«Io… Vedremo. Devo pensarci.»
Jo si alzò, s’infilò i libri sotto il braccio, all’altezza dei fianchi. «Okay, ci pensi. Quando mi darà la lettera e l’assicurazione che il dottor Stoner non sarà allontanato dal progetto, io terrò fede ai miei impegni.»
Arrivò alla porta, si girò a guardarlo. «Tanto per capirci… Non mi vanno le catene e i divertimenti sado-masochistici, ma per tutto il resto sono disponibile.»
Quando lei uscì, chiudendosi la porta alle spalle con un colpo secco, McDermott era in un bagno di sudore.
Markov sedeva in sala d’aspetto come uno scolaretto colto in fallo, e aspettava, aspettava. La segretaria dell’accademico Bulacheff, una donna corpulenta di cinquant’anni o più, di tanto in tanto gli scoccava un’occhiata. Uomini entravano e uscivano dall’ufficio dell’accademico. Ma nessuno rivolgeva la parola a Markov.
Fuori nevicava. Markov restò a guardare i fiocchi bianchi che si appiccicavano ai vetri della finestra. A poco a poco, Mosca scomparve sotto le raffiche di vento e neve. Persino le guglie e le mura del Cremlino divennero macchie confuse.
“Una vera tormenta” si disse Markov. “Chissà quanto ci metterò per tornare a casa.”
Alla fine, quando stava per cadere in un sopore ipnotico indotto dalla neve, la voce nasale della segretaria gracchiò: «Kirill Vasilovsk Markov?»
Lui si risvegliò di colpo. Non c’era nessun altro nella sala, ma la donna aveva lo stesso trasformato il suo nome in una domanda. «Sì, sono io» rispose Markov.
«L’accademico Bulacheff può riceverla.»
Markov si alzò, leggermente incerto sulle gambe, e raggiunse la porta in legno grezzo dell’ufficio dell’accademico.
“Bulacheff è l’uomo chiave” gli ripeté la voce ammonitrice di sua moglie. È lui che deve restare soddisfatto. Se riesci a convincerlo che quei segnali non sono un linguaggio, forse andrà tutto bene. Ma se resterà scontento del tuo lavoro… Maria non aveva terminato la frase: una spada sospesa sulla testa di Markov.
L’ufficio di Bulacheff non era né spazioso né lussuoso, però un samovar lucidissimo sbuffava in un angolo della piccola stanza. E l’accademico si alzò dalla scrivania per dare a Markov un caldo benvenuto.
«Kirill Vasilovsk! Come è stato gentile a venire di persona. Spero che la neve non le darà noie, tornando a casa.»
Markov sorrise e annuì e mormorò frasi di circostanza, e pensò: “Sono stato costretto a venire di persona, mi hai convocato. E come potrei sperare di non avere noie dalla neve, a meno che non restiamo qui fino a primavera?”.
«Ho letto il suo rapporto» disse l’accademico, riaccomodandosi alla scrivania. «Molto interessante. Molto interessante.»
Fece una strizzatina d’occhi a Markov, poi frugò nell’ultimo cassetto della scrivania, dove trovò una bottiglia di vodka e due bicchieri.
«Non è ghiacciata» si scusò.
Markov gli sorrise. «Non si preoccupi. Sono già congelato io.»
Bulacheff indicò all’ospite il logoro divano in pelle in un angolo dell’ufficio. Sopra il divano erano incorniciati ritratti di Mendeléev, Lobachevski, Oparin e Kapitza. L’inevitabile ritratto di Lenin era sopra la scrivania dell’accademico. Però non c’erano uomini politici contemporanei, notò Markov.
Accettò il minuscolo bicchiere di vodka. Bulacheff brindò: «Alla comprensione.»
Tutt’e due trangugiarono il liquore d’un fiato.
Mentre Bulacheff si spostava con la sedia girevole per riempire il bicchiere di Markov, il linguista disse: «Lei è stato gentile a trovare tempo per me. So che deve essere molto occupato.»
Il cranio calvo di Bulacheff luccicava alla luce dei pannelli sul soffitto. «A dire il vero, sono felicissimo di vederla. Voglio discutere questa faccenda di Giove con qualcuno che non appartenga all’Accademia, che non faccia parte dell’ufficialità.»
«Oh?»
Con un sorriso quasi timido, Bulacheff si riaccomodò in poltrona. «È persino troppo facile restare isolati, in una posizione come la mia. Vedo solo gente che fa parte dell’Accademia o del governo. A volte ci chiudiamo troppo su noi stessi; perdiamo di vista le cose importanti perché siamo troppo presi dai problemi immediati del momento.»
Stringendo il bicchiere di nuovo pieno, Markov annuì. «Capisco.»
«È un piacere discutere questa questione di…» Bulacheff lanciò un’occhiata distratta al soffitto. «…Di intelligenza extraterrestre con un uomo di scienza, anziché con un politico.»
“O alza lo sguardo al cielo, o cerca microfoni sul soffitto” pensò Markov. Poi disse: «E una questione di importanza estrema, vero.»
«Sì» convenne Bulacheff. «E gli americani sono parecchio più avanti di noi… Come al solito.»
«Cioè?»
«Questo Stoner… L’idealista che le ha scritto quella lettera… Sa chi è?»
Markov scosse la testa.
«La nostra ambasciata a Washington ci comunica che è uno degli astronomi che hanno collaborato alla progettazione e alla costruzione del telescopio orbitale lanciato da poco dagli americani. Lo chiamano Big Eye.»
«Un telescopio in orbita? Come uno Sputnik?»
«Esattamente. È chiaro che gli americani lo usano per studiare Giove da vicino… Molto più da vicino di quanto possiamo fare noi, visto che non abbiamo in orbita strumenti del genere.»
Markov si lisciò la barba con la mano. «Quindi, hanno scoperto cose che noi non possiamo vedere.»
«Esatto! Loro posseggono occhi, e noi siamo ciechi.»
«È un… vero peccato.»
Bulacheff bevve la vodka, appoggiò il bicchiere sulla scrivania. «La scienza dipende dalla politica. È sempre stato così. Capitalismo o socialismo, non fa differenza. Noi vogliamo studiare l’universo, però dobbiamo mendicare i soldi dei politici.»
Markov era d’accordo. «Anche agli inizi della scienza, grandi uomini come Galileo e Keplero dovevano preparare l’oroscopo dei loro mecenati, se volevano portare avanti il loro vero lavoro.»
«Sì. E oggi noi dobbiamo inventare armi per loro.»
Scrutando a sua volta il soffitto, Markov disse: «Ma è necessario per la difesa della Madrepatria.»
«Certo» disse seccamente Bulacheff. Poi aggiunse: «E per il trionfo del socialismo.»
«È un vero peccato che noi non abbiamo un telescopio orbitale» disse Markov.
«Occorrerebbero dieci anni per portarlo nello spazio… Nove dei quali spesi per manovre di corridoio e richieste umilianti.»
«Mi chiedo… Esiste la possibilità che possiamo usare il telescopio americano? O vedere le fotografie che ha scattato?»
Bulacheff lo fissò con sguardo truce. «Quando non vogliono nemmeno ammettere di avere scoperta qualcosa? Quando tengono segreta l’intera faccenda?»
«Hmmm. Sì. Sarebbe difficile.» Markov bevve metà della vodka, si sentì bruciare lo stomaco.
«Non fosse perché scoppierebbe la guerra, sarei tentato di chiedere ai nostri cosmonauti di impadronirsi di Big Eve» borbottò Bulacheff.
Markov scoppiò quasi a ridere, ma riuscì a controllarsi.
«No» disse cupamente Bulacheff «la nostra unica speranza è collaborare con gli americani. Però, vista la situazione internazionale, i nostri capi politici non accetteranno mai di essere costretti a chiedere favori a Washington.»
«Sarebbe umiliante» convenne Markov.
«Ma dev’esserci un modo per riuscirci!»