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«Adesso no» rispose Stoner senza degnarla d’un’occhiata.

Thompson era un tipo dai capelli biondo-rossi, di corporatura media, col viso piacevole e anonimo del ragazzo della porta accanto. Assistente universitario, aveva all’incirca l’età di Stoner; era il “vecchio saggio” del personale dell’osservatorio.

«Riceviamo forte e chiaro» disse, quando Stoner gli arrivò vicino. Con un sorriso rilassato, si piegò sulla scrivania più vicina e scavò fuori da un mucchio di carta un vecchio paio di auricolari.

«Queste cuffie non le usiamo quasi mai» disse. «Ma ho pensato che ti avrebbe fatto piacere sentire quello che riceviamo.»

Stoner accettò le cuffie da Thompson e s’incamminò con lui verso le consolle che ronzavano alle pareti. Thompson reggeva in una mano i fili degli auricolari. “Sembriamo qualcuno che porta a spasso il cane” pensò Stoner.

Thompson infilò la spina delle cuffie in una presa della consolle e fece un cenno a Stoner, che sistemò gli auricolari sulle orecchie. L’imbottitura era spessa.

Tutti i rumori della stanza svanirono. La bocca di Thompson si mosse, ma Stoner non riuscì a capire cosa stesse dicendo l’altro.

«Niente» disse Stoner, e la sua stessa voce gli risuonò nella testa, come se avesse la sinusite. «Non si sente niente.»

Thompson annuì, abbassò qualche comando sulla consolle. Stoner udì uno stridio acuto che salì vertiginosamente di tono, sino ad arrivare oltre la portata dell’udito umano. Poi il sibilo basso, le scariche elettroniche dei rumori di fondo dello spazio: il suono di infiniti miliardi di stelle e di nubi di gas interstellari, fusi assieme.

Stava cominciando a scuotere la testa, quando finalmente lo sentì: una nota bassa, profonda, rombante, solo un sussurro, ma indiscutibilmente diverso dal rumore di fondo. Stoner annuì, e Thompson spostò di poco una manopola sulla consolle.

Il suono divenne leggermente più forte, poi scomparve. Un secondo dopo tornò, e svanì di nuovo. Stoner, immobile al centro della stanza ridotta al silenzio, restò ad ascoltare gli impulsi d’energia che riecheggiavano nelle sue orecchie come il respiro profondo di un gigante addormentato.

Chiuse gli occhi e vide il gigante: il pianeta Giove.

Il radiotelescopio stava ricevendo impulsi di radioenergia provenienti da Giove. Impulsi più regolari delle oscillazioni di un metronomo, precisi quanto il ticchettio di un orologio al quarzo. Impulsi che non avevano una spiegazione naturale.

Lentamente, si tolse le pesanti cuffie.

«È il nostro segnale» disse a Thompson, nel brusio della stanza.

Thompson annuì. «È il nostro segnale.» Prese le cuffie, ne accostò una all’orecchio. «Sì, perfetto. Regolare come un orologio.»

«E nessuno l’ha mai sentito?»

«No, niente del genere. Non da Giove o da altri pianeti.» Thompson scollegò gli auricolari e li gettò sulla sua scrivania, sparpagliando carte in ogni direzione. «Non è sulla stessa frequenza dei pulsar e non ha la stessa periodicità. È una cosa completamente nuova.»

Stoner si grattò i capelli folti, scuri. «Secondo te, cosa lo produce?»

Con un sorriso, Thompson rispose: «È per questo che ti abbiamo chiamato qui. Sei tu che devi dirmelo.»

Annuendo lentamente, Stoner disse: «Sai già cosa ne penso, Jeff.»

«Vita intelligente.»

«Infatti.»

Thompson gonfiò le guance, lasciò andare il fiato. «Una cosa enorme.»

«Già.»

Lasciò Thompson immerso nei suoi pensieri, si avviò verso le scale che portavano al suo ufficio al secondo piano. La stessa studentessa gli si accostò.

«Dottor Stoner, posso parlarle un minuto?»

La guardò. «Certo, signorina…?»

«Camerata. Jo Camerata.»

Senza un’altra occhiata, lui cominciò a salire gli scalini. Jo gli tenne dietro.

«È per il professor McDermott» gli disse.

«Big Mac? Cosa vuole?»

«Credo sia meglio che ne parliamo nel vostro ufficio, a porte chiuse.»

«Benissimo. Sto proprio andando lì.»

«Lei era lassù, vero?» chiese Jo alla sua schiena, «Ha partecipato alla costruzione di Big Eye, su in orbita.»

Giunsero in cima alle scale, e lui si girò a guardarla per bene. La ragazza era giovane, alta, e aveva il viso classico che si può trovare su un vaso greco. Capelli castani tagliati corti le incorniciavano gli zigomi alti, la mascella decisa. I jeans aderivano alle sue cosce piene, il maglione metteva in risalto il seno.

“Una fan di astronauti?” si chiese Stoner «Sì, facevo parte del gruppo che ha progettato e costruito il telescopio orbitale. È per questo che Big Mac mi ha chiamato qui, perché posso convincere i miei amici a passarci sottobanco qualche foto di Giove.»

Il secondo piano era più tranquillo, anche se il pavimento era sempre percorso da vibrazioni. Stoner s’incamminò nello stretto corridoio, seguito a mezzo passo di distanza da Jo. Aprì la porta del suo ufficio.

Dentro c’erano due uomini: uno alla finestra, dove poco prima si era fermata Jo, l’altro vicino alla porta.

«Il dottor Keith Stoner?» chiese quello alla finestra, il più piccolo dei due. La scrivania di Stoner, con le foto di Giove sparpagliate sul ripiano, li divideva.

Stoner annuì. L’uomo alla finestra era più basso di lui di qualche centimetro, ma robustissimo. Quello che gli stava accanto, dietro la porta, sembrava un giocatore di football. Un giocatore professionista. Tutte due indossavano abiti grigi di taglio tradizionale. Tutt’e due avevano visi duri, perfettamente rasati.

«Servizio segreto della marina» disse l’uomo alla finestra. Dalla tasca interna della giacca tirò fuori il portafoglio e lo tese sulla scrivania. Apparve un tesserino d’identificazione.

«Vuole seguirci?»

«Come sarebbe a dire? Dove…?»

«Per favore, dottor Stoner. È molto importante.»

Il grosso agente alla porta afferrò Stoner per il braccio, all’altezza del bicipite. Gentilmente, ma con fermezza. L’uomo più piccolo fece il giro della scrivania, e tutte tre s’avviarono in fila in corridoio.

Jo Camerata s’immobilizzò davanti alla porta dell’ufficio di Stoner, fissandoli a bocca spalancata. L’espressione sul suo viso non era shock, e nemmeno rabbia: era senso di colpa.

3

…Jansky, inaspettatamente, aveva registrato onde radio dalla galassia mentre studiava… le scariche e i rumori di fondo che interferiscono nelle comunicazioni radio. La scoperta di Jansky ha contrassegnato, nel 1932, la prima fruttuosa osservazione di radioastronomia. È davvero strano che sia occorso tanto tempo per capire che onde radio ci giungono da fonti celesti.

J.S. Hey
The Evolution of Radio Astronomy — 1973

A Mosca erano quasi le undici di sera. Una nevicata leggera cadeva dal cielo cupo, plumbeo, e ricopriva sia i monumenti più antichi sia i quartieri residenziali più recenti di una soffice coltre bianca. All’alba, vecchi e donne si sarebbero disposti ai loro posti lungo le strade, a spalare dai marciapiedi la neve che poi gli spazzaneve avrebbero raccolto.

Kirill Markov guardò la sveglia sul comodino.

«Mi fai il solletico» disse la ragazza.

Markov abbassò gli occhi su di lei. Per un attimo, non riuscì a rammentarne il nome. Difficile scrutarne il viso al buio, ma i suoi lunghi capelli biondi riflettevano la luce che filtrava dal lampione fuori. Nadia, ricordò finalmente. È triste, rifletté una parte della sua mente, che quando si dà la caccia a una donna non si riesca a pensare a nient’altro, e che poi diventi così immemorabile dopo averla conquistata.

“Donna!” sbuffò tra sé. “È solo una ragazza.”