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Stoner aspettò che l’altro aggiungesse qualcosa. Ma Cavendish si avvicinò alla finestra e restò a guardare la notte tempestosa, emettendo nuvole di tabacco blu, aromatico. Il vento urlava, e dall’alto giunse il gemito di un jet lontano.

Con un’occhiata al terminale del computer, stranamente zitto, Stoner si alzò, diretto al telefono in soggiorno.

«Torno fra un minuto» disse a Cavendish. «Chiamo il centro computer. Voglio sapere cosa diavolo sta succedendo a questa macchina.»

«Bene» disse Cavendish. «Nel frattempo, penso che mi verserò un brandy. È una notte perfetta per bere un goccio.»

«Certo. Versane uno anche a me, se non ti spiace.»

«Senz’altro» disse Cavendish.

Jo sedeva su una poltroncina, davanti alla consolle centrale d’input del computer. La luce dei pannelli a fluorescenza che scendeva dal soffitto immergeva la stanza in un’eternità senza tempo. Non c’erano finestre; impossibile capire se fosse giorno o notte.

“Come in un casinò di Las Vegas” si disse Jo. “Vogliono che tutta l’attenzione sia concentrata sulle macchine, non su distrazioni come il sole o la pioggia.”

L’orologio alla parete segnava le dodici e qualche minuto. Jo sapeva che era mezzanotte, ma un chiodo insistente nel cervello le ripeteva che forse si sbagliava, che forse oltre le pareti solidissime del centro computer, splendeva il sole.

«Senti, esco a prendere un caffè.»

Stupita, alzò gli occhi e vide l’altro studente neolaureato che quella settimana faceva con lei i turni di notte.

«Ne vuoi uno anche tu?» Il ragazzo le sorrise. Un viso dolce, giovane, senza rughe. Stava tentando di farsi crescere la barba, ma solo qualche peluzzo biondo gli ornava il mento.

«No, grazie. Mi sono portata da mangiare.»

«Okay. Torno tra dieci, quindici, minuti. Non aprire la porta a nessuno. Ho la chiave.» Gliela mostrò. «A quest’ora ci sono in giro troppi matti per correre rischi.»

«Non mi succederà niente» disse Jo.

«Okay.»

Il ragazzo uscì, fischiettando sottovoce.

Quando la pesante porta d’acciaio si fu chiusa alle sue spalle, Jo si alzò, mosse gambe e braccia intorpidite, e si mise a fare flessioni. Gli unici suoni nella stanza erano il ronzio a sessanta periodi delle luci, il rombo più accentuato del computer, e i respiri ritmici di Jo.

Il computer stava lavorando a qualcosa: un problema che impegnava buona parte dei suoi circuiti. Emetteva un ronzio continuo, e le luci si accendevano e spegnevano senza che uscisse una sola riga stampata, da quando Jo era arrivata, un’ora prima.

“Forse sta lavorando a un problema per Keith” pensò lei abbassandosi sui talloni. Una smorfia le piegò gli angoli delle labbra. “Sono passate più di due settimane, e non ha mai chiamato, non ha nemmeno dato un messaggio al dottor Thompson o a uno degli altri che lo vanno a trovare. Non gliene importa niente di me. Non gliene frega un accidenti di me. Se l’è spassata, e basta.”

Squillò il telefono.

Con un grugnito, la ragazza si alzò e raggiunse l’apparecchio incorporato nella consolle, accanto a una tastiera.

«Centro computer» rispose.

«Sono il dottor Stoner» disse la voce di Keith. Sembrava leggermente seccato. «Con chi parlo?»

«Keith…» Jo cercò di nascondere l’affanno improvviso della voce, cercò di dirsi che era solo per le flessioni.

«Jo? Sei tu?»

«Sì.»

«Adesso lavori al centro computer?»

Lei annuì, poi capì quanto fosse assurdo annuire. «Sì. Mi hanno messa qui. Per questa settimana, faccio il turno di notte.»

«Come va?»

«Va…» La ragazza esitò, riordinò i pensieri. «Va tutto benissimo, Keith. E tu?»

«Lo stesso, più o meno.» Anche la voce di lui si fece guardinga. «Non possiamo dirci troppe cose al telefono, immagino.»

«No. Credo che le misure di sicurezza…»

«Sì, lo so.»

All’improvviso, lei non ebbe più niente da dire.

Dopo un attimo di silenzio, luì chiese: «Come ti tratta Big Mac?»

Un lampo d’elettricità traversò il corpo di Jo. “Sa tutto?” si chiese.

«Jeff Thompson mi ha detto che ha scritto una lettera di raccomandazione per te alla NASA.»

Lei sentì la rabbia gelida delle sue parole. Con la stessa freddezza, ribatté: «Esatto, Keith.»

«Buon per te» disse Stoner, acido. «Sei una ragazza che sa quello che vuole. Spero che tu lo ottenga.»

“Idiota, mentecatto!” avrebbe voluto urlare lei. “Credi che lo stia facendo per me?”

Però gli disse: «Va tutto alla perfezione, Keith.»

«Sono pronto a scommetterci.»

«Perché hai chiamato?» gli chiese, freddissima.

Lo sentì tirare il fiato prima di rispondere: «Un paio d’ore fa ho inserito un problema di traiettoria, e da allora il mio terminale si è bloccato. Cosa succede? Un problema del genere non dovrebbe richiedere tanto tempo al computer.»

«Il computer è in funzione da quando sono arrivata qui» disse lei. «I tuoi problemi di traiettoria hanno un’infinità di varianti, richiedono tempi molto lunghi.»

«Be’, controlla, ti spiace?»

«Certo» disse lei. «Sono qui per questo.»

Jo attese che lui rispondesse, dicendo qualcosa, qualsiasi cosa. Persino la rabbia avrebbe indicato che lei gli stava a cuore.

Invece, lui si limitò a borbottare: «Grazie.»

“Non gliene importa niente” capì lei. “Non gliene è mai importato. Nemmeno per un istante. Si preoccupa di più per il suo maledetto programma che per me.”

«Non c’è di che» disse Jo. E riappese.

Stoner udì la voce di lei, gelida, lontana come la stella più remota: «Non c’è di che.»

La comunicazione s’interruppe.

“Puttana” pensò. “Andrebbe a letto con chiunque possa aiutarla. Be’, spero che si diverta con Big Mac.”

Sbatté giù il telefono. Si sentì invadere dalla furia, e capì che la sua rabbia non era rivolta a Jo, nemmeno E McDermott, ma a se stesso.

“Sei proprio un uomo in gamba, Stoner” si disse. “Te ne stai qui e gli permetti di tenerti prigioniero e ti racconti che il tuo lavoro è più importante dei legami personali, e quello che in realtà vorresti fare è sbattere giù quella porta fottuta e correre fuori a prendere la ragazza e portartela nella tua caverna.”

«Senti che vento!»

Con un sobbalzo, Stoner si girò: Cavendish era apparso sulla soglia del soggiorno, un bicchiere di brandy in ogni mano.

Stoner respirò profondamente, riportò sotto controllo le sue emozioni impazzite, costrinse il cuore a rallentare i battiti frenetici; distese, sulla furia che sentiva ribollire dentro, un manto di impenetrabile freddezza.

«Ti senti bene, Keith?» gli chiese Cavendish traversando la stanza.

Stoner annuì, perché non aveva ancora il coraggio di parlare. Accettò il bicchiere che l’altro gli porgeva.

Cavendish alzò il bicchiere, fece un sorriso smorto. «Alla salute» brindò.

«Alla salute» disse Stoner. Sorseggiò il cognac, che gli scese in gola come fuoco liquido.

Cavendish portò la sedia a dondolo davanti al caminetto scoppiettante e si accomodò con un sospiro di stanchezza. «Che notte» disse. «Che notte. Si sente il vento che ulula nel camino.»

Stoner sedette sulla poltrona davanti all’altro, poi chiese: «Perché non riesci a dormire?»

«Hmmm? Cosa?»

«Hai detto che non dormi bene.» Un argomento neutro. Stoner sentiva la rabbia affondare dentro di sé, fuggire nell’angolo nascosto dove sarebbe rimasta senza che nessuno potesse notarne la presenza.

«Brutti sogni» rispose Cavendish, fissando le fiamme. «Sono rimasto prigioniero dell’esercito imperiale giapponese per quattro anni… Lo stesso tempo, più o meno, che un fotone impiega per viaggiare da Alpha Centauri alla Terra.»