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«Ma… È solo una nave.»

«No, compagno.» Il segretario generale scosse la testa. «È solo “la prima” nave.»

«Dove?» chiese Markov.

«Kwajalein» rispose Maria, «È un’isola in mezzo all’Oceano Pacifico, mi dicono.»

«E ci mandano lì? Perché?» Markov percorse con lo sguardo l’ambiente familiare del loro soggiorno: le librerie, le comode poltrone, la vecchia lampada in ottone che aveva recuperato a casa di sua madre, l’albero davanti alla finestra.

«Prima mi mandano in quel centro di ricerca sperduto, e adesso… Dove hai detto che è?»

«Kwajalein» ripeté Maria, secca. Era ancora in uniforme, ma reggeva tra le braccia due sacchetti di carta gonfi di cibarie. Non li aveva nemmeno appoggiati sul tavolo, prima di informare il marito della novità.

«No» protestò Markov, con la testa che gli ronzava. Afferrò una sedia e piombò a sedere. Sua moglie restò in piedi coi sacchetti. «Non posso andarci. A me non piace viaggiare, Maria Kirtchatovska, glielo devi far capire. Io voglio restarmene qui, a casa…»

«Ah» disse lei.

Lui alzò gli occhi sulla donna.

Maria s’avviò in cucina, pestando forte con gli stivali per scrollare via la neve.

«Vuoi restartene a casa» lo canzonò lei, con voce stridula, cantilenante. «Però stanotte non eri a casa. Non c’eri nemmeno stamattina quando sono uscita per andare al lavoro.»

«Non ero su un’isola tropicale, però» urlò Markov.

«E dov’eri?»

«Nel mio ufficio. Ho dovuto lavorare fino a tardi. Ho dormito su un divano. Sempre meglio che tornare qui con tutta quella neve. Gli autobus dopo mezzanotte si fermano, lo sai.»

«Hai dormito sul divano» borbottò Maria dalla cucina. «Con chi?»

«Con un volume di fiabe armene che devo tradurre prima della fine del semestre!» sbottò lui. «I tuoi superiori mi hanno tenuto occupato per settimane, però non hanno assunto nessuno per fare il mio lavoro.»

Maria apparve sulla porta della cucina, con un sacchettino di cipolle in mano. «Sei rimasto per tutta la notte con qualche vacchetta. Quando sono tornata, ti ho chiamato in ufficio.»

Markov si costrinse a sorriderle. «Maria, credimi, non puoi fregarmi così facilmente. Sono rimasto in ufficio tutta notte. Tu non hai telefonato.»

Lei lo fissò per un lungo momento.

«C’ero davvero, Maria» disse Markov. «Solo.»

«Ti aspetti che io ti creda?»

«Certo. Ti ho mai mentito, cara?»

Il viso di lei si contorse in una frustrazione inesprimibile a parole. Maria scomparve in cucina. Markov la sentì aprire armadietti, sistemare scatole di cibo.

Romperà qualcosa, pensò. Con un sospiro, si alzò e andò in cucina.

«Kwajalein?» chiese.

Sua moglie, in punta di piedi, stava sistemando vasi di rape in salamoia nell’armadietto sopra il fornello. Senza girarsi, gli rispose: «Kwajalein. Sì.»

«Ti do una mano.» Markov s’infilò nel poco spazio tra frigorifero e fornello, prese un paio di scatole da sistemare sui ripiani più alti.

«Quelle no!» Maria gli strappò le scatole di mano. «Vanno qui.»

Lui restò a guardarla mentre sistemava le riserve di cibo come preferiva; poi accettò da lei altre due scatole, le mise sul ripiano più alto e chiese: «Perché devo andare a Kwajalein? Perché non posso restare qui a casa?»

«Bulacheff ti ha chiesto esplicitamente. L’Accademia invierà un gruppo ristretto di scienziati per studiare con gli americani l’astronave aliena.»

«Viene anche Bulacheff?»

«No.»

«Come pensavo.»

«Ma tu partirai.»

Markov appoggiò il corpo magro agli sportelli della dispensa. «Ma io non ho nulla da offrire ai loro studi! Non ne abbiamo già discusso un’altra volta?»

«Ci sarà l’astronauta americano, Stoner.»

«Ah. Il mio corrispondente.»

«Esatto. Ti conosce di fama. È per questo che Bulacheff ha scelto anche te.»

«Non avrei mai dovuto scrivere quel libro» mormorò Markov.

«Sei un esperto a livello internazionale di linguaggi extraterrestri.»

«Cioè di nulla, in parole povere.»

«E farai parte del gruppo di scienziati sovietici che andranno a Kwajalein per lavorare con gli americani allo studio di questo visitatore alieno.»

Markov, depresso, scosse la testa. «Maria, io voglio solo restare qui a Mosca. A casa. Con te.»

Lei gli scoccò un’occhiata sospettosa. «Su questo puoi stare tranquillo. Verrò anch’io a Kwajalein con te.»

«Vieni anche tu!» Markov era stupefatto.

«Certo. Tu sei troppo importante per poter uscire dall’Unione Sovietica senza scorta.»

«Oh, andiamo, Maria, i tuoi superiori hanno tutta questa paura che io possa chiedere asilo in Occidente? Non sono mica un ballerino.»

«È per la tua sicurezza.»

«Naturalmente.»

«Naturalmente!» sbottò lei. «Non credi che mi importi la tua sicurezza?»

Markov si passò le mani sulla camicia, in cerca di un pacchetto di sigarette. «Credo che tu pensi ai guai che vi darei se decidessi di chiedere asilo politico.»

«E a te interessa solo trovare qualche vacchetta da sedurre!»

Lui alzò la testa. «Maria Kirtchatovska, ti ho detto che stanotte ero solo in ufficio.»

«Sì, me l’hai detto.»

Markov tornò in soggiorno. Le sigarette erano sul tavolino accanto alla sua poltrona preferita.

«Però non mi hai detto» disse Maria, tenendogli dietro come un bulldog implacabile «che quella studentessa con gli occhi bovini del centro di ricerca ti ha seguito a Mosca.»

«Cosa? Di cosa stai parlando?»

«Di quella puttana della Vlasov… Quella che ti portavi a letto al centro di ricerca.»

«Sonya?» Markov si sentì dilaniato tra gioia e timori. «È a Mosca?»

«Ma guardati!» urlò Maria. «Hai già un’erezione!»

Lui scosse la testa. «Maria, non capisci. Quella ragazza non significa niente per me. È solo una bambina molto vivace.»

«Pronta a toglierti i pantaloni ogni volta che glielo chiedi» disse Maria.

Con un sospiro, Markov ribatté: «Maria Kirtchatovska, tu mi conosci troppo bene. Non so resistere. Sonya mi si butta addosso. È dotata di una grossa carica vitale, è piuttosto graziosa.»

“E giovane” aggiunse fra sé Maria. Posò lo sguardo sullo specchio al lato opposto della stanza. Si guardò: era piccola e tozza, pallida, quasi cerea, con un viso a patata. L’immaginazione la spinse a “vedere” il marito con la florida ragazza che aveva trovato nel suo letto.

«Non sarai più costretto a resisterle» disse Maria, con voce bassa, velenosa. «Non tornerà all’università. È in viaggio verso una fabbrica dell’Ucraina, dove imparerà l’arte di riparare le trattrici agricole.»

Markov restò a bocca spalancata. «Cos’hai…?»

«E tu verrai a Kwajalein, con me» disse Maria.

Il viso di lui s’imporporò. «Donna, hai esagerato!» ruggì; e le si scagliò addosso, la mano alzata, pronta a colpire.

Maria, però, non si spostò. «È troppo tardi perché tu possa intervenire» disse. «È già tutto fatto. E adesso, d’ora in poi, non sfuggirai ai miei occhi nemmeno per un minuto.»

Markov s’immobilizzò, rosso in viso, col sudore che gli scendeva lungo il colletto della camicia.

«L’hai… fatta allontanare? Hai rovinato le sue possibilità di carriera nel campo dell’astronomia? Così, come niente?»

Maria non rispose. Girò le spalle e s’incamminò lentamente in cucina, piantò suo marito in mezzo al soggiorno; e Markov, per la prima volta, capì quanto potere avesse sua moglie.

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