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Markov studiò attentamente l’isola che l’aereo stava sorvolando.

Maria sedeva sulla poltrona accanto alla sua, stringendo i braccioli con tale ansietà da avere le nocche bianche. Il viaggio era stato tutt’altro che tranquillo. Dapprima avevano dovuto aggirare un grosso temporale estivo sugli Urali. Poi avevano fatto una sosta extra per il rifornimento al lago Baykal; e lì, freddamente, li avevano informati che uno dei motori era in avaria e andava riparato oppure sostituito.

Tutto quello non contribuiva certo a creare fiducia per il lungo viaggio sull’Oceano Pacifico. Non li aiutò nemmeno il fatto di essere tenuti chiusi sull’aereo per sei ore, con nulla da guardare se non i meccanici mongoli che si affannavano, perplessi, attorno al motore.

Ma adesso, finalmente, stavano sorvolando una piccola isola color argento, con la striscia nera della pista d’atterraggio; le giravano sopra come un cane che faccia il giro della cuccia prima di decidersi a mettersi a dormire.

Markov prestò poca attenzione ai superbi banchi di nubi che a ovest stavano trasformando l’orizzonte in un arcobaleno di rossi e arancioni. Studiò l’isola.

Non c’era molto da vedere. Un gruppo di edifici a un’estremità. La pista d’atterraggio. Altri edifici sul lato opposto della pista. Un’unica strada. Qualche antenna di radiotelescopio.

Le altre isole sparse lungo la barriera corallina ovale sembravano deserte, abbandonate. Spiagge bianche e lussureggiante vegetazione verde. Tutte piccole, lunghe quanto pochi isolati di una città, giudicò Markov. L’isola centrale era più grande, ma era stata spogliata quasi completamente degli alberi per fare posto alle costruzioni e alla pista d’atterraggio.

Markov cercò sotto il sedile la borsa.

«Cosa fai?» brontolò Maria.

«Voglio prendere il binocolo.»

«Cosa ti aspetti di vedere? Ballerine col gonnellino d’erba?»

Lui sospirò. Aveva rinunciato a quella fantasia quando un ufficiale del KGB li aveva informati che gli americani avevano trasformato Kwajalein in base militare da più di vent’anni.

«No, no, naturalmente» mormorò.

«Quelle antenne…» Maria le indicò con una mano, mentre con l’altra stringeva ancora il bracciolo. «Un tempo erano radar, per studiare il rientro dei missili sperimentali lanciati dalla California.»

«Sì, così ci hanno detto.»

«Sono state modificate per osservare la nave aliena.»

«Ummm» sussurrò Markov. Si portò il binocolo agli occhi e aggiustò il fuoco.

Non c’era il minimo segno d’indigeni. Nessun comitato di benvenuto alla pista d’atterraggio. Niente ragazze dalla carnagione scura con ghirlande di fiori da appendere al collo degli ospiti, per poi baciarli sulle guance. Niente, a parte macchine molto efficienti, americani con l’aria di uomini d’affari, e quelle strane case tipiche degli americani, le case su ruote.

Visualizzò con gli occhi della mente il viso di Sonya Vlasov e si chiese cosa facesse in quel momento a Kharkov, in una fabbrica di trattrici. “Quanto le sarebbe piaciuto venire qui!” pensò Markov. “Dev’esserci qualcosa che possa fare per lei, un modo per convincere Maria a togliere dal suo curriculum quella macchia.”

Scrutò la moglie mentre l’aereo cominciava a scendere. Il carrello d’atterraggio si abbassò, riempiendo la cabina di un sibilo fortissimo. Il vecchio che sonnecchiava sulla fila vicina di poltrone si svegliò di colpo, spaventato, strabuzzando gli occhi.

“Dice che non mi perderà d’occhio per un momento” pensò Markov. “Benissimo. Sarò un marito perfetto. La affascinerò come nessuno l’ha mai affascinata.”

Ma l’espressione sul viso di Maria non era per nulla incoraggiante. La donna fissava davanti a sé, rifiutandosi testardamente di mostrare la propria paura; l’aereo, intanto, scendeva verso la pista d’atterraggio, scosso dal vento. Le onde bianche si alzavano a lato dei finestrini.

Markov ricordò quei momenti di rabbia nel loro appartamento, il trionfo che si era dipinto sul viso di Maria quando gli aveva annunciato la caduta in disgrazia di Sonya, l’espulsione dall’università, il trasferimento in fabbrica.

E ricordò l’odio assoluto che gli aveva bruciato il cuore. “Non sarà facile accattivarmi le sue grazie” si disse. “Ma è indispensabile, quella ragazza non dev’essere rovinata per colpa mia.”

Il verde confuso delle fronde di palma stupì Markov; poi le ruote dell’aereo urlarono sulla pista di cemento, ci fu un sobbalzo pauroso. Si posarono di nuovo e percorsero la pista d’atterraggio, coi motori che ruggivano.

Quando l’aereo rallentò, dirigendosi verso l’unico edificio del terminal dell’aeroporto, le guance di Maria cominciarono a riprendere colore.

Girandosi verso Markov, la donna sussurrò: «Ti ricordi l’americano che ti ha scritto, Stoner?»

Lui annuì.

«Devi trovarlo e fartelo amico. Si fida di te.»

«E io dovrò tradire la sua fiducia, non è vero?»

Maria, tornata padrona di sé, gli diede un’occhiataccia. «Dovrai fare ciò che è necessario, qualunque cosa sia.»

Markov sospirò, conscio che avrebbe fatto tutto quello che lei gli ordinava. “È un modo più sicuro per ingraziarmela che non coprirla di baci” pensò.

20

Territorio dello Yukon

George Umaniak nascose il fucile sotto le coperte sul retro della slitta a motore. Non aveva nemmeno visto un caribù, ma i poliziotti bianchi gliel’avrebbero fatta passare brutta se avessero scoperto che era uscito con un fucile da caccia.

Il vento stava acquistando forza, scendeva in un lungo sospiro gelido dalle montagne coperte di ghiacci. Il cielo era di nuovo scuro, e il vento parlava di spettri, della danza dei morti. George, con un brivido, tirò il cappuccio della giacca. La maledetta slitta non voleva partire. Lui girò la chiave di scatto, diverse volte, ma il motore rifiutava d’accendersi. George bestemmiò fra sé. Non poteva essere la batteria, l’aveva controllata il giorno prima.

Con la coda dell’occhio, intravide un lampo di luce nelle tenebre sempre più fitte. Alzò lo sguardo e vide l’aurora boreale risplendere sulle montagne. Verdi, rosa pallido, spettralmente gialle, le luci del Nord danzavano sulla cima delle montagne a tempo coi gemiti del vento.

George inghiottì saliva, e finalmente riuscì ad accendere il motore. Accelerò al massimo e corse a casa. Non era notte per trovarsi fuori al freddo e al buio.

La sala conferenze era piena quasi per metà. In origine era il cinematografo per il personale militare di Kwajalein, e Stoner si scoprì a desiderare che tornassero a proiettarvi film. Però quella sera era una sala conferenze, un luogo di riunione, un centro d’incontro per scienziati e tecnici del PROGETTO JUPTTER.

Circa centocinquanta tra uomini e donne sedevano sulle scomode sedie pieghevoli in metallo fornite dal governo. Jeff Thompson era accanto a Stoner, in una delle ultime file. Jo Camerata non si vedeva. Big Mac e Tuttle erano in prima fila, a un passo o poco di più dal podio degli oratori.

Il ronzio delle conversazioni si spense quando McDermott salì sulla piccola piattaforma sul fondo della sala. Cavendish lo seguì con aria serafica, portandosi la sedia. La aprì e sedette dietro McDermott, che si protese in tutto il suo volume sul minuscolo podio. Un russo anziano arrivò dopo Cavendish e sedette su una sedia già pronta per lui.

«Buonasera, signore e signori.» La voce rauca di Big Mac venne soffocata dallo stridio metallico di feedback del microfono.

McDermott lanciò un’occhiataccia al tecnico audio che stava seduto a un lato della stanza, dietro un tavolo invaso da scatole nere; tutti gli altri guardarono con un sobbalzo gli altoparlanti fissati alle travi del soffitto in legno.

«Big Mac non ha bisogno di microfoni» mormorò Stoner. Thompson sorrise e annuì.